A Milano solo negli ultimi tre giorni sono ben 3 i casi sospetti di Blue Whale, il pericolosissimo gioco del suicidio che sta purtroppo rendendo ancora più tragico il già delicato problema dei disagi e suicidi tra i giovanissimi. Anche in questo caso milanese, che si tratti del “vero” gioco russo o di qualcosa di simile o di una semplici emulazione, il “gioco” non cambia, è sempre un tema urgentissimo e da non sottovalutare. «Bisogna parlarne meno e prepararsi di più», ha dichiarato Ivano Zoppi, presidente di Pepita Onlus che con la Casa pediatrica del Fatebenefratelli e l’Osservatorio nazionale adolescenza ha aperto una chat di supporto via whatsapp. A questo numero rispondono sia educatori che psicologi in grado di poter dare un aiuto, formare e informare i ragazzi che segnalano le varie emergenze.



Lo stesso Zoppi affronta un problema assai interessante, su quel crinale tra realtà e pandemia che purtroppo anche questa minaccia del “blue whale” contribuisce a creare. «Non so quanti siano i casi acclarati di Blue Whale. Qualora ci fossero le nostre forze dell’ordine sono preparate, ma dobbiamo preparare le famiglie e gli educatori, dalle scuole agli oratori alle squadre di calcio, ad affrontare anche questo problema. Nel frattempo chiediamo di non fare disinformazione, diffondendo panico nei genitori e troppa curiosità nei ragazzi», ha affermato il presidente di Pepita ieri in un vertice all’ospedale milanese del Fatebenefratelli. (agg. di Niccolò Magnani)



Esiste o non esiste il gioco del suicidio, la Blue Whale Challenge? Sono in tanti a chiederselo, mentre l’Italia si spacca a metà, fra impauriti e complottisti di vario tipo. E’ ora di fare chiarezza, perché se da un lato alcune persone gridano alla cospirazione, all’ennesima e presunta trappola dei “giornalai”, accusati di creare terrore ed avere pure un tornaconto personale, dall’altra rimane la realtà dei casi internazionali. Oppure non esistono? Ecco, è proprio su questo che va fatta chiarezza. Perché potremmo chiamare il fenomeno “Blue Whale” come “Trottola”, così come “Risiko”.



Non è il nome a fare la differenza ma ciò che accade, un fenomeno sempre più crescente che punta i fari su diverse generazioni di giovani e giovanissimi che scelgono di farsi del male, fino a provocare la propria stessa morte. I suicidi esistono da tempo e fanno anche paura. Ai familiari, amici e conoscenti che rimangono in vita, rimangono solo tanti dubbi. “Si poteva evitare?”; “Se quel giorno…”. Alla fine rimane solo la realtà della morte, vista dal suicida in questione come liberazione ed allo stesso tempo culmine della propria disperazione. Va fatta tuttavia una distinzione.

La Blue Whale esiste, così come il suicidio in sé e per sé. E’ innegabile. Ed a nulla c’entrano i giornali, blog, o vlog che siano, che diventano invece in questo caso importanti organi di informazione. Certo, a fare della disinformazione ci vuole davvero poco e spesso la superficialità nel ricercare fonti accreditate e approfondimenti porta a compiere degli errori madornali. Non è il caso della Blue Whale, tuttavia, testimoniata da diverse istituzioni e autorità, sia estere che italiane, come evidenzia la presenza delle stesse in tantissime trasmissioni televisive.

Basti pensare al nostrano Chi l’ha visto, dove è intervenuto un ufficiale della Polizia Postale, o a Quarto Grado, dove è sempre stata la Polizia a parlare del fenomeno e cercare di supportare le famiglie degli adolescenti e ragazzini potenzialmente colpiti. No, in questo caso è inaccettabile prendere le posizioni per esempio dell’informatico Matteo Flora, che su Agi sottolinea in modo forse provocatorio che “La Blue Whale non esiste”. E già perché se da un lato bisogna dargli ragione e ammettere che è troppo arduo per la mente di molti elaborare un concetto tragico come il suicidio, dall’altra bisogna togliere quel dito puntato contro le testate giornalistiche e similari che ne parlano. Quale sarebbe il presunto tornaconto di cui parla, il click facile? E allora ci permetta, signor Flora, con il suo editoriale non si è mostrato diverso da chi falsamente accusa ed è invece reo, forse, di aver voluto fare leva su un’opinione – sbagliata – della massa.