Caro Francesco,
dobbiamo dirti insieme un “grazie di cuore”. Tutti. Non solo per il grande campione che sei stato e che sei, dentro e fuori dal campo, regalandoci testimonianze preziose di cosa siano la forza della passione, l’umiltà nella ricchezza, la fedeltà a una bandiera, le rinunce per servirla, l’orgoglio dell’appartenenza, l’unità della famiglia, contagiando l’Italia con valori grandi e immortali. Ma ti dobbiamo un “grazie” perché domenica con te all’Olimpico è andato in scena qualcosa di veramente eccezionale. Un richiamo, come una eco lontana, che non ha potuto risparmiare nessuno e da cui nessuno si è sentito immune. Sei stato di una lealtà sopraffina e sconfinata e ci hai consegnato, sbattendocela in faccia, la cosa più preziosa che possiedi: la tua umanità.
Hai costretto tutti ad essere seri. In poche semplici ma efficacissime parole ci hai chiaramente sussurrato che né la fama, né i soldi, né il successo sono in grado di cancellare e vincere quella paura che sorge quando finisce — seppur gloriosamente, come è stato per te — quell’ipotesi di bene che aveva dato l’illusione di bastare. Tutto finisce, ingoiato voracemente da quel Cerbero del tempo — “maledetto tempo” — che bussa alle spalle intimandoti il “basta”. Quell’eternità desiderata e assaporata, quel pensiero che potesse essere “per sempre”, si sono schiantati senza paracadute contro l’evidenza della finitezza del tutto. Sono cose che si sanno, e proprio per questo si dimenticano. Quella paura di cui ci hai parlato con la voce rotta dal pianto — e chi non ce l’ha sta paura Francè? — è tutta qui, nel rimanere sospeso in quella terra di mezzo vertiginosa tra un “già” e un “non ancora”, pieni di un vuoto che dà i brividi.
Cos’è l’eterno? Cos’è la pienezza? Esiste davvero qualcosa in grado di vincere l’inesorabile scorrere del tempo?
Grazie amico mio. Mi hai permesso, seguendo la tua, di vivere a fondo la mia umanità. Quando ci hai salutato sotto la Sud piangevo come un bambino: era un misto di bene e di affetto — per te che mi hai accompagnato fin da quando ero un bambino — ma era anche quella tua stessa paura e desiderio di eternità che vibrava nelle mie viscere. Avere ed essere quello stesso sentimento della vita, sentirmi esplodere nel petto la tua stessa domanda di qualcosa che duri — perché è ingiusto che una cosa bella finisca! — è stata la cosa che più mi ha unito a te.
Eravamo una cosa sola! Mille storici motivi c’erano ad avvicinarmi a te, ma questo li ha vinti e sbaragliati tutti. È per questo che mi fanno rabbia coloro che un po’ si scandalizzano per aver visto piangere 70mila persone ieri a Roma; è vero, il mondo è pieno di tragedie — spesso drammatiche — e piangere per l’addio di un calciatore, ricco e famoso per giunta, potrebbe sembrare assurdo. Potrebbe, appunto, ma non lo è: perché un cuore che pulsa e mendica l’eterno, piange! Cioè, chiede: consciamente o inconsciamente. Assurdo, semmai, è il contrario: è il rinchiudere se stessi in quegli angusti schemi che ci rendono così spesso l’ombra sbiadita di noi stessi.
Si può, si deve piangere. Sì può, si deve domandare. Grazie di cuore Francè