“Da solo, se fossi stato solo, non ce l’avrei fatta”: non c’è più, né può esserci, soddisfazione in Tonino Saladino, il principale imputato dell’inchiesta Why Not che undici anni fa venne additato all’opinione pubblica italiana come il “pericolo pubblico numero uno” da un pm allora ignoto alle cronache, tale Luigi de Magistris. I giornali lo descrissero come il regista occulto di una cupola affaristico-delinquenziale che avrebbe attraversato tutta l’Italia dei colletti bianchi per carpire denaro e potere. Non era vero niente e ieri, con l’ultima prescrizione del troncone principale dell’inchiesta, Saladino è definitivamente uscito dal tunnel.
C’è del sollievo, questo sì, ma dopo undici anni di tritacarne mediatico quale soddisfazione si può mai avere? Solo la riconoscenza verso i pochi — all’inizio — e i tanti altri, man mano che passavano i mesi e gli anni, che hanno solidarizzato con lui e l’hanno sostenuto.
“Innanzitutto la famiglia, che ha sempre creduto in me e nella mia innocenza”, racconta oggi Saladino, al telefono dal suo negozio di Lamezia Terme, all’aeroporto, dove ha ricominciato vendendo caramelle di alta qualità, una delle arti imparate e messe da parte nella sua vita poliedrica di veterinario-imprenditore. “Ma la mia famiglia ha pagato un prezzo alto per questa solidarietà, e per la persecuzione che mi ha colpito: ancora oggi, alla notizia della prescrizione, mia figlia è scoppiata in un pianto a dirotto, di liberazione, certo, ma anche di sfogo del tanto dolore accumulato”. “Mia moglie”, continua, “è stata una donna eccezionale, per me ha rappresentato un sostegno totale. Grazie a Dio, prima della mazzata, eravamo già una famiglia trasparente, lei e i miei figli sapevano tutto da sempre, con un’assoluta certezza morale in me. Però, ripeto, sia mia moglie che i ragazzi hanno subìto un grosso trauma psicologico”.
A cercare, oggi, su quella colossale memoria collettiva che è Google, la storia di Saladino e di Why Not le ultime notizie si ripescano nel 2014, l’eccitazione mediatica è sbollita da tempo: ma i costi e le trafile burocratico-istituzionali no. Ieri, formalmente, è stata sancita la prescrizione della prima e fondamentale incriminazione, durata 11 anni, nonostante il rito abbreviato: l’accusa di associazione a delinquere per asseriti, inesistenti abusi d’ufficio. La seconda e successiva incriminazione era stata per corruzione in atti giudiziari, e da questa tutti gli imputati erano stati assolti perché il fatto non sussisteva, peraltro dopo cento combattutissime udienze. Invece dal primo troncone era scaturito un grottesco pendolarismo giudiziario, con un’assoluzione in primo grado, una condanna in appello cancellata dalla Cassazione, un nuovo appello e una nuova condanna ancora a Catanzaro ma a prescrizione già intervenuta, ancora un “no” dalla Cassazione… Insomma, nei fatti, sei gradi di giudizio per non approdare a nulla. Con 130 faldoni, decine di migliaia di pagine, forse orma intellegibili soltanto dai supercomputer della Nasa. Che per loro fortuna hanno di meglio da fare.
“Come si sopravvive? Della famiglia ho detto. E naturalmente, dentro la famiglia e sopra di essa, la forza che viene dalla fede. Dentro di me”, rievoca Saladino, “un nutrimento costante è venuto dall’esperienza di Cl, che mi ha temprato negli anni, mi ha donato una fede solida che ha resistito a quest’ondata di fango, 5300 articoli di giornale e 4 puntate di Anno Zero. Sono stato fatto mediaticamente a pezzi, sapendo di essere innocente. Un trattamento simile è terribile e vien il dubbio che essere onesti non serve a nulla. Viene il dubbio che chiunque può finire in un tritacarne esistenziale e restare senza arte né parte. In questi anni mi è tornato spesso in mente un aforisma di Corrado Alvaro, un grande scrittore della mia terra, la Calabria: la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.
Già: è inutile essere onesti, di fronte a una macchina giudiziaria che non funziona e non rispetta la vita di innocenti e di colpevoli, cieco ingranaggio di un tempo diverso, che non è più il tempo della vita vera. “Per i primi cinque anni non ho potuto fare nulla, non ho più potuto lavorare”, racconta ancora Saladino: “Ho ripreso con il negozio di caramelle. Avevo dei risparmi accumulati come veterinario e ho dato fondo a tutto quel che c’era da parte, l’ho speso per vivere e per difendermi. Cornuto e mazziato… Una grande mano, anche su questo fronte, mi è arrivata dal giro del sussidiario e dalle tante amicizie personali dentro la comunità di Cl”.
In questo tunnel grottesco, il rischio estremo Saladino l’ha poi corso un anno fa, paradossalmente, quando ormai l’Italia aveva dimenticato Why Not e il suo artefice, de Magistris, era ormai già entrato nel secondo quinquennio da sindaco di Napoli: “Sì, ho rischiato l’arresto al decimo anno”, precisa Saldino, “perché avevo addosso una condanna in appello a 2 anni e 6 mesi e avrei potuto essere arrestato invece che affidato ai servizi sociali. Poi per fortuna non è scattata questa decisione, la Cassazione si è pronunciata, nella sezione dove lavora un giudice simbolo di severità come Piercamilo Davigo. Il Procuratore di Cassazione ha detto che l’inchiesta non aveva né capo né coda. E siamo arrivati alla prescrizione”.
Impossibile, oggi, dopo tanta vita di trincea, non trarne una morale politica: “Sono molto deluso nei confronti del centrodestra italiano”, dice l’ex-pericolo pubblico numero uno, “perché avrebbe avuto la possibilità di riformare la giustizia in modo serio, e con i tanti media che aveva a disposizione il suo leader sarebbe anche stato possibile, e invece niente, tutte le energie sono state indirizzate sulla vicenda personale del capo, e così a tutt’oggi nessuna autorità indipendente controlla l’operato dei magistrati, né registra e sanziona gli errori o le negligenze. Nessuno che introduca elementi di logica nell’ordinamento. Com’è possibile che chiunque possa fare il magistrato, a prescindere da qualunque elemento attitudinale e caratteriale? Non tutte le personalità sono tagliate per fare inchieste o giudicare”.