NEW YORK — Io sono un immigrato. Tutte le volte che sento parlare di immigrati non posso fare a meno di pensarci. Emigrare, ovvero trasferirsi in un altro paese, presumibilmente per ragioni di lavoro; immagino che questa sia la ragione più frequente e plausibile.
Due delle persone che ospitiamo di questi tempi stanno combattendo proprio in questi giorni la loro decisiva “battaglia migratoria”, uno per restare a conclusione degli studi, l’altro per trasferirsi qua dove con un po’ di fortuna un pugno di dollari con la musica lo si può ancora guadagnare.
Noi? Beh, è una storia lunga e giunta completamente inaspettata, ma non anzitutto una questione di lavoro, che comunque c’entra sempre. Si espatria — qualunque cosa si cerchi o da qualsiasi cosa si fugga — ed un lavoro ci vuole. Noi non avevamo molto, ma non ci mancava niente, tutto sommato eravamo “gente istruita” e con più di qualche conoscenza della lingua inglese. Eppure è stata impegnativa, l’inizio pieno di aspettative e timori. Giusto che sia così.
Tutte queste cose hanno preso a frullarmi in testa stamattina quando in carrozza (parliamo di subway, la metropolitana di New York) sono saliti due messicani di una certa età con stivali e cappelli texani ed hanno attaccato a suonare e cantare una di quelle loro cose in ¾, a due voci. Io, come mi capita di solito, stavo leggendo il New York Times. Mentre costoro se ne andavano in giro per il vagone scucchiaiando una melodia che sembrava la caricatura di se stessa, l’occhio mi è scivolato dalla narrazione del ribaltone dell’Obamacare ad un lungo articolo che penso proprio non avrei mai letto se non fosse stato per quei due musicanti. Storie di immigrati. Credo che non l’avrei letto perché di questi tempi persino l’aria ne è satura come lo sono i dibattiti politici, le diatribe sul famigerato muro, le animate discussioni tra “buoni” e “cattivi”, “permissivisti” e “rigorosi”, “caritatevoli” e “xenofobi”, come sono saturi i campi profughi e le prigioni di confine.
Ma con due messicani davanti, in carne, ossa, stivali, cappelli e chitarre, due entrati in questo paese chissà come, probabilmente “illegali”, ho dovuto leggere. Ed è stata una lettura dolorosa. Immagino che l’intento del New York Times — checché ne possano dire gli editori — fosse più il desiderio di far male a Trump piuttosto che far del bene agli immigrati. L’America da Obama in poi sta pagando dazio allo spargersi del virus ideologico nei confronti del quale questo giovane paese non pare avere valide difese immunitarie. Ed io, essendo nato e cresciuto dove e quando sono nato e cresciuto, posso solo leggere il New York Times pensandolo ideologico…
Ma la tragedia che si consuma quotidianamente ed ormai da anni ai nostri confini del sud è reale. Il transito di migranti, soprattutto dal Messico al Texas, è perpetuo. Pagano, come la maggior parte dei migranti in tutto il mondo, mettendosi nelle mani di personaggi senza scrupoli (non per niente chiamati coyotes) che attraverso il Rio Grande li portano in punti remoti, introvabili, vicino al confine. Di lì parte la drammatica avventura a piedi, il tentativo di raggiungere e superare il confine resistendo alla fatica, alla fame, alla sete, al caldo insopportabile del giorno ed al freddo aspro e penetrante della notte. Alcuni ce la fanno, alcuni no. Lo documentano i resti di oltre seimila esseri umani che negli ultimi quindici anni sono stati trovati e in qualche modo raccolti lungo quella linea di confine dove Trump vorrebbe erigere il suo muro. E’ un pellegrinaggio senza una meta certa, in cui sangue, sudore e lacrime non possono assicurare il lieto fine.
Mentre leggo ripenso a noi, al desiderio ed alla fatica di immedesimarci con questo paese e la sua gente, la lotta per arrivare alla tanto ambita Green Card. In fondo anche noi siamo arrivati come quelli che sbucano dal Messico: non ci ha chiamati nessuno, e se ci fossimo persi, se qualcuno fosse dovuto venire a raccogliere le nostre ossa sarebbero stati amici e familiari del nostro paese d’origine, perché l’America non ci aveva mica invitati a venire. Eppure tutti noi immigrati non voluti siamo arrivati.
Come figli indesiderati.
Cosa si fa con i figli indesiderati?