Sono trascorsi quasi vent’anni da quel tragico 9 maggio 1997, quanto la giovane Marta Russo, studentessa 22enne di Giurisprudenza, fu uccisa con un colpo di pistola di piccolo calibro, mentre si trovava nel cortile dell’Università La Sapienza. Un caso, quello della giovane studentessa che scosse l’intero mondo del più grande ateneo d’Europa e che divenne oggetto di un lungo dibattito sui media, i quali si occuparono del delitto con grande attenzione come non era mai accaduto prima. Le prime indagini sulla morte della studentessa, sopraggiunta dopo quattro giorni dallo sparo nei vialetti della sua stessa università, inizialmente sembravano brancolare nel buio. Tante le piste battute e poi abbandonate, fino a quella perizia che individuò una particella compatibile con lo sparo e rinvenuta sul davanzale dell’aula sei del dipartimento di filosofia e diritto e che permisero di stringere il cerchio. Grazie alla testimonianza emersero i nomi di Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone, assistente non retribuito del professore Romano. I due finirono in carcere ma per tutta la durata del processo continuarono a dichiararsi sempre innocenti. Ad inchiodarli, fu la testimonianza contraddittoria della segretaria Gabriella Aletto, che fu comunque ritenuta credibile. Scattone e Ferraro, dopo cinque differenti gradi di giudizio furono condannati in via definitiva, rispettivamente a 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo ed a 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento. Una sentenza che non fece affatto spegnere le polemiche e che torna a far discutere a distanza di 20 anno dalla morte di Marta Russo.
L’omicidio della studentessa della Sapienza è da considerarsi un caso del tutto chiuso? A riaccendere i riflettori, 20 anni dopo, è stato il lavoro di un giornalista detective, Vittorio Pezzuto, autore di un libro dedicato al caso: “Marta Russo – Di sicuro c’è solo che è morta”. Frase, questa, che come ricorda Il Secolo d’Italia il reporter aveva già utilizzato per l’omicidio di Salvatore Giuliano. “Virato al femminile, è perfetto per descrivere l’assenza di prove reali in uno dei primi grandi processi mediatici del Paese. Smontare la verità ufficiale è la logica conseguenza”, ha commentato Pezzuto al Quotidiano.net. Il caso di Marta Russo ha coinvolto un intero ventennio, eppure, nessun editore ha voluto pubblicare il libro sul giallo, ecco perché Pezzuto avrebbe deciso di auto pubblicarlo su Amazon, dove risulta attualmente fra i primi tre titoli di memorie. Ma il caso è da considerarsi davvero chiuso con i nomi dei due colpevoli condannati in ben cinque gradi di giudizio? L’autore del libro instilla il dubbio. La sua tesi è chiara: nel 1997, dopo i numeri casi non risolti tra cui spicca quello di Simonetta Cesaroni, la procura e la questura di Roma sono in un momento di profonda crisi. “La morte di Marta Russo scatena la voglia di rivincita”, dice il giornalista, rivelando tutte le più grandi mancanze nel giallo: “manca il movente del delitto, manca l’arma, mancano le conferme dei periti chimico-balistici e dei tabulati telefonici, si sgretolano i riscontri, emergono folli pressioni sui testimoni, cade la presunta correità dei docenti”. Pezzuto ha quindi posto l’accento sulle piste alternative mai realmente valorizzate, da quella politica all’errore di persona. Eppure, la morte di Marta Russo ancora oggi continua a sollevare interrogativi e dubbi.