La splendida notizia è che ottantadue ragazze sono state liberate in Nigeria dal crudele regime di Boko Haram: che oltre cento delle 276 rapite nell’aprile del 2014 restino ancora in mano dei terroristi, è quella pessima.
Anche quelle liberate ieri raccontano un’esperienza terribile. Non lo dicono solo le loro parole: lo dicono soprattutto i loro corpi. Tutti magrissimi, parecchi feriti e addirittura mutilati. Qualcuna delle studentesse torna a casa con un bambino figlio della violenza carnale e della fede: perché la maggior parte di loro, cattoliche, è stata costretta a sposare i miliziani di Boko Haram e la violenza carnale faceva parte del processo di “conversione”.
Le ragazze erano state rapite a Chibok nel nord del paese: 57 riuscirono a scappare dopo poche ore ma il resto rimase nelle mani del gruppo qaedista. A maggio di un anno fa era stata ritrovata Amina Ali mentre vagava nella foresta con la bimba avuta durante la prigionia. Poi, nell’ottobre scorso, altre 21 studentesse erano state rilasciate in seguito a uno scambio con quattro guerriglieri di Boko Haram e con la mediazione della Croce rossa. Altre tre vennero trovate in seguito, portando a 195 il numero di quelle ancora nelle mani di questi fanatici alleati dell’Isis ora sceso ora a 113: anche quest’ultimo rilascio sarebbe avvenuto grazie ad uno scambio di prigionieri.
Un paio di mesi fa una delle studentesse liberate aveva rilasciato un’intervista, terribile non solo per ciò che ci si può immaginare ma perché diceva che il loro rapimento era una punizione “per l’unica colpa di voler studiare”.
Sa’a, questo il nome della ragazza intervistata, si era decisa a raccontare perché il grandissimo rischio che corrono le sue amiche è quello di essere dimenticate. Ripetiamolo: delle 276 studentesse cattoliche rapite tre anni fa, un centinaio sono ancora nelle mani di questi fanatici musulmani e dopo tutto quello che hanno subito il grande rischio che corrono è quello di essere dimenticate. Perché in Nigeria la vicenda di queste ragazze non occupa quasi mai le prime pagine dei giornali, e anche da noi i cittadini “medi” spesso sanno a mala pena chi sia Boko Haram. Che non è una persona, un individuo, ma un’organizzazione jihadista sunnita alleata dello stato islamico.
Se non sanno cosa è Boko Haram, come possono immaginare cosa patiscono le donne che sono loro ostaggio? Il silenzio è dovuto al fatto che lo stato è debole e Boko Haram è forte: il silenzio cioè è dovuto alla paura. Se si fa mente locale sulle liberazioni avvenute finora, infatti, ci si accorge che nessuna di essa è avvenuta perché hanno vinto la giustizia o la legalità. A parte qualche caso di eroismo isolato, ci si è dovuti piegare al vile patto dello scambio e del patteggiamento: ragazze in cambio della liberazione di prigionieri fanatici, violenti e sanguinari.
Mai come in questa occasione quotidiani, televisioni, hashtag e social possono servire per salvare vite umane. Parrà strano, ma questa volta leggere un articolo come questo, condividerlo e parlarne non è questione di like e di pubblicità ma è questione di far crescere la possibilità che vengano liberate delle donne, che venga ascoltato il grido di prigioniere il cui dolore non ha voce.