Li hanno seguiti per un po’ con un gommone, poi si sono avvicinati e hanno staccato il motore dell’imbarcazione lasciandoli andare alla deriva. E’ l’ultima tragedia del mare che mostra anche come agiscono gli scafisti, lasciando appositamente in balia delle acque i migranti. E’ scoppiato immediatamente il panico a bordo e il fondo dell’imbarcazione si è rotto facendo capovolgere anche il gommone degli scafisti. Sono annegate 80 persone, tra cui anche uno dei trafficanti di uomini. Nelle ultime 24 ore sono annegate in tutto 200 persone. Nel frattempo, vanno avanti le inchieste delle procure di Catania e Trapani sulle presunte connessioni tra trafficanti di uomini e organizzazioni non governative. Chiediamo ad un attento osservatore del sociale come Alberto Contri, presidente di Pubblicità Progresso e docente di comunicazione sociale alla Iulm, il suo punto di vista in merito.



In molti hanno osservato che i magistrati dovrebbero parlare con gli atti e non con le dichiarazioni.

Osservazione corretta. Esaminando però quelle rilasciate dal procuratore Zucaro alla Commissione Difesa del Senato, si evince chiaramente che il magistrato ritiene che i sospetti di scorrette commistioni possano essere in qualche caso fondati, ma al momento si basano su elementi di prova provenienti da fonti che non possono essere utilizzate in un procedimento giudiziario, per cui chiede maggiori risorse per approfondire.



Nel frattempo il mondo politico si è spaccato, e le Ong sono insorte gridando alla demonizzazione e alla delegittimazioqne del loro lavoro umanitario, sostenute con veemenza da personalià come Emma Bonino ed Erri De Luca.

Chi è stato testimone di drammatici salvataggi in mare non può che essere angosciato da ciò che ha visto con i propri occhi e dall’ipotesi che tali salvataggi vengano fatti per motivi non semplicemente umanitari. Colpisce però, che nonostante le affermazioni del procuratore di Catania, i rapporti di Frontex e quelli della Guardia costiera libica, sia scattata un’immediata difesa d’ufficio delle Ong in alcuni casi addirittura furibonda. Il che può contribuire ad alimentare anche qualche sospetto.



Vale a dire?

Figuriamoci se non sono sensibile innanzitutto alla priorità di salvare vite umane in grave pericolo. Noto però che in queste difese a prescindere, così sicure di dove stia la ragione, non compare mai l’unico argomento che potrebbe porre fine ad ogni discussione: il tema dell’accountability, vale a dire la credibilità che acquistano le Ong o Onlus che dir si voglia nel rendicontare pubblicamente i propri finanziamenti, le proprie spese, le proprie raccolte fondi. Se dal punto di vista organizzativo le organizzazioni più grosse sono assimilabili a vere e proprie imprese, di fatto agiscono su base volontaria e grazie a risorse donate e in parte anche conferite da istituzioni e governi. Dovrebbe essere quindi obbligatorio, oltre che nel loro interesse, perseguire la massima trasparenza dei loro bilanci e delle loro attività. Ma solo alcune lo fanno.

Su questo tema sia Valentina Furlanetto che Dambisa Moyo hanno espresso dubbi assai documentati nei loro libri L’industria della carità e La carità che uccide.

Libri che hanno provocato molta irritazione nel Terzo Settore. Eppure denunciavano con adeguata documentazione il fatto che anche in importanti organizzazioni umanitarie internazionali non è infrequente che gran parte delle risorse vengano spese in costi organizzativi poco giustificati, e, ancora, che in molte raccolte fondi ai percettori finali giungano solo le briciole. Sinceramente non capisco perché le Onlus, e con loro i rappresentanti del Terzo Settore, non propongano per primi l’obbligo di rendicontare pubblicamente tutto, come si fa in molti paesi. 

Sarebbe così complicato?

Per nulla. Purtroppo però l’unico organismo che era in grado di farlo, in quanto aveva completato il repertorio di tutte le organizzazioni di volontariato, vale a dire l’Agenzia delle Onlus, è stata inopinatamente chiusa dal governo Monti. Eppure era l’agenzia che costava meno, ed era molto ben gestita dal professor Zamagni. In ogni caso, dato che il repertorio c’è e le sue competenze assorbite (sì è detto così) da Palazzo Chigi, basterebbe un decreto per rendere obbligatorio alle Onlus la pubblicazione dei bilanci e la rendicontazione della ripartizione delle raccolte fondi. Se nessuno lo reclama, significa che si intende avallare l’evidenza che svolgere attività di carattere umanitario può nascondere altri fini, dal semplice camparci sopra a ipotesi gravi come quelle sollevate intorno al problema dei flussi migratori.

Le Ong e i loro difensori sostengono che un medico che accetta di andare in missione, così come i costi di una nave, vadano pagati.

Ci mancherebbe altro. Ma se è odioso, come in diversi hanno detto, ipotizzare che le Ong che salvano uomini, mamme e bambini da sicuro annegamento lo facciano per secondi fini, e altrettanto odioso che chi lo fa non lo voglia fare all’insegna della massima trasparenza, viste anche le complesse problematiche coinvolte. Oltre che con le indagini della magistratura (che si svolgono in mezzo a mille difficoltà) il problema si può risolvere alla base (e non solo per la questione dei migranti) imponendo l’obbligo della pubblicità dei bilanci, della provenienza delle risorse e della ripartizione delle spese.

Quindi, chi si lamenta che le raccolte fondi stanno diminuendo…

Ha un solo modo per difendersi: promettere e garantire una precisa rendicontazione della destinazione di questi fondi. Agli allarmi lanciati da Furlanetto e Moyo non sono seguite denunce, segno che hanno scritto il vero. Così la finiremmo anche con i mormorii su alcune Onlus assai chiacchierate e sulla reale consistenza delle loro attività umanitarie oltremare. Le Onlus in Italia sono centinaia di migliaia: come si fa ad essere così sicuri che siano tutte sante? L’unico modo per accertarlo è una totale trasparenza. Non volerla perseguire, autorizza purtroppo le peggiori illazioni. Il resto è pura chiacchiera.