Non c’è, credo, legame naturale più forte di quello fra una madre e un figlio. Immagino che non ci sia, ordinariamente, gioia più grande per una donna che portare in grembo una creatura nuova. Per la povera sedicenne di Trieste che l’altro ieri ha partorito nella solitudine della sua stanza, ha avvolto la figlioletta in un sacchetto di plastica, l’ha calata con una corda dalla finestra e l’ha abbandonata alla sua sorte non è stato così.



Chissà che cos’ha patito.

Chissà chi è il padre della piccola. Magari un grande amore fragile, che appena ha saputo della situazione se l’è squagliata (siamo bravissimi, noi maschi, a fuggire le responsabilità. La Chiesa ha impiegato secoli a educare i barbari alla paternità, ora che non è più ascoltata la barbarie naturale ritorna a dominare, fa impressione la diffusione esponenziale in tutto il mondo di donne che tirano su da sole i figli perché i padri spariscono). Magari lo sconosciuto di una sera, una bravata per far vedere che anche lei è disinibita (qualche settimana fa Lucetta Scaraffia ha scritto sul Corriere un pezzo bellissimo sulla diffusione della pillola dei cinque giorni dopo, ovvero sul trionfo del modello maschile della sessualità legata solo al piacere, e su come le ragazze, per sentirsi “moderne”, per non passare per bigotte, ci si adeguino, facendo violenza al loro corpo che invece non separa sessualità e maternità).



Chissà perché aveva deciso di tenere quell’esserino nel suo grembo. È così facile, così ovvio abortire oggi. Invece Maria (diamole un nome, magari si chiama Yvonne o Carolina, chissà, però intanto che ne parlo mi piace chiamarla Maria) ha deciso di tenerlo. Magari aveva soltanto paura di andare dal medico. Magari sperava che lui, il padre, ci ripensasse. Magari, chissà, sperava di trovare nella propria madre — la nonna della piccola morta di freddo e di stenti — uno sguardo, uno spiraglio che le consentisse di rivelare il suo segreto.

Chissà com’è la mamma di Maria, chissà com’è il rapporto fra le due donne (quando mia figlia aveva quattordici anni o giù di lì, una volta che ha detto: “Papà, devo dirti una cosa”, le ho chiesto: “Sei incinta?”. Non lo era, ma mia moglie e io abbiamo colto l’occasione per spiegarle bene che se le fosse capitato doveva stare tranquilla, che a casa il posto per un altro frugoletto ci sarebbe sempre stato. Ma chissà com’è la mamma di Maria, e chissà che cosa prova adesso…).



Chissà come si è sentita Maria, quando dopo il dolore e dopo il sangue e sola nella stanza si è trovata quell’esserino fra le braccia. Qualche secolo fa, almeno — queste cose succedono da che mondo è mondo — c’era la ruota. Avrebbe potuto nascondere il fagottino nel vestitone, andare fino al convento vicino, infilarlo nella ruota, farla girare e affidarlo alla Provvidenza. L’avrebbero chiamata Carmela d’Iddio o Lucia degli Esposti o qualcosa del genere, e Maria avrebbe sempre potuto sperare che la sua bimba potesse avere una vita abbastanza buona. Ma oggi, nella società evoluta di oggi, per una giovane mamma con la vergogna del “figlio della colpa” non c’è posto. Sì, certo, forse avrebbe potuto andare all’ospedale, da un medico, prima, farsi assistere, chiedere — che so — come si fa a partorire in segreto. Ci sono gli assistenti sociali, per questo. Ma forse una giovane donna che aspetta un figlio voluto a metà più che di un servizio sociale avrebbe bisogno di un’amicizia, di uno sguardo umano.

Scrivo di Maria, continuano a ronzarmi in testa un paio di versetti della Bibbia: “Si dimentica forse una donna del frutto del suo seno? Se anche ci fosse una donna che si dimenticasse, Io invece non ti dimenticherò mai”. Sono parole del Dio di Abramo al suo popolo. Mi piace pensare che ora le pronunci per la bimba di Maria, che ormai è passata dal grembo della madre a quello del Padre. E che in qualche modo il suo abbraccio adesso possa raggiungere anche Maria.