Charlie Gard deve morire: lo hanno deciso i giudici dell’Alta Corte di Londra. I medici possono, anzi debbono, staccare la spina al neonato entro 24 ore, andando contro il volere dei genitori e decidendo così la sorte del bimbo di sette mesi. Una pena di morte in piena regola, inflitta ad un bambino nato con una grave malattia genetica, che ha bisogno di una macchina per poter respirare.
Si potrebbe obiettare che alla base di questa sentenza iniqua ci siano importanti ragioni economiche che il servizio sanitario nazionale inglese non può sostenere. Falso. I genitori di Charlie, con tante piccole donazioni di privati che fanno il tifo per un bambino che lotta fin dalla nascita per vivere, hanno raccolto oltre un milione di sterline, più che sufficienti per portare il figlio negli Stati Uniti dove sembra che ci sia una cura apposita per lui. Ma l’ospedale ha rifiutato ai genitori il permesso di portarlo all’estero.
E davanti alla fermezza con cui hanno affermato di voler portare il caso alla Corte europea dei diritti umani sono stati espropriati della loro genitorialità. Charlie ora è solo, a combattere contro i medici dell’Ospedale e contro i giudici della Corte suprema, una doppia lobby potentissima, senza un avvocato difensore che sostenga il suo diritto alla vita e senza che chi gli ha dato la vita possa intervenire in sua difesa.
Alle ragioni di una scienza che afferma che Charlie non vede, non sente, non si muove per cui tenerlo in vita non è “eticamente accettabile”, rispondono le ragioni di chi lo ama, che invece afferma che il bambino dà segni di risposta, quando si sente trattato con amore. Ai genitori non resta che denunciare il modo disumano con cui il figlio è trattato: una vera e propria forma di eutanasia che i medici, con il consenso dei giudici, vogliono mettere in atto freddamente, tanto secondo loro Charlie non vede, non sente, non si muove. Eppure medici e giudici non solo non dovrebbero interferire in decisioni che spettano solo ai genitori, ma dovrebbero comunque agire sempre e solo nell’esclusivo interesse del minore e del suo bene. Sopprimerlo non è certamente il bene del bambino.
Ancora una volta ci troviamo davanti alla grande ipocrisia che si nasconde dietro ogni forma di eutanasia, con l’aggravante che in questo caso non c’è neppure il consenso: né quello del soggetto né quello dei suoi genitori. La nostra società preferisce chiudere gli occhi davanti alla disabilità che identifica con una condizione che rende la vita indegna di essere vissuta. Ma colpisce, in questo come in altri casi analoghi, come si vada affievolendo il senso della solidarietà che dovrebbe portare medici e giudici, almeno per un residuo di umanità, a rispettare il dolore di questi genitori, a sostenerne la speranza, ben sapendo che se Charlie morisse per la sua malattia, loro avrebbero la certezza di aver fatto tutto il possibile per lui. Mentre in questo caso sanno che una società ostile al dolore e alla sofferenza, preferisce la morte al rischio della vita. I genitori penseranno per tutta la vita che se Charlie fosse andato in America forse vivrebbe ancora. Ma questo non è stato possibile, perché qualcuno non ha voluto. Charlie muore per questo, non per la sua malattia, ma perché qualcuno si è opposto al suo tentativo di cura e gli ha tolto anche la speranza di provare a guarire.
Una società così non può durare a lungo, perché ha perso la sua stessa ragione di essere, applica una sorta di legge del più forte, un darwinismo sociale che sopprime i più fragili, senza neppure sospettare che domani magari il più fragile sarà proprio colui che oggi nega ad un bambino di 7 mesi la possibilità di provare a vivere. Triste destino, quello di questa società…