Totò Riina minaccia di parlare, ma alla fine tace, salvo limitarsi al minimo sindacale, cioè a chiedere di avere un migliore trattamento detentivo rispetto al carcere duro (il 41-bis).

Un dirigente importante, ma di minore rango, come Giuseppe Graviano, invece, accusa Berlusconi di non mantenere i patti, cioè di essersi dimenticato che la sua “famiglia” nel 1992 gli fece il favore di far fuori Falcone e Borsellino, Salvo eccetera per spianargli la strada in politica.



Tutto ciò viene raccontato, in carcere, ad un camorrista, durante la sosta dell’ora d’aria, ben sapendo che venivano intercettati, e registrati, anche i loro gemiti.

Graviano, invece di abbandonarsi a rivelazioni favolose difficilmente credibili, potrebbe invece dare una spiegazione della vicenda di cui è stato protagonista. Mi riferisco alla mancata strage allo Stadio Olimpico di Roma, all’inizio di gennaio 1993, dove con i suoi picciotti aveva predisposto un formidabile attentato per centinaia di carabinieri di guardia allo stadio dove la Lazio giocava con l’Udinese. Riina lo aveva mandato per lanciare un messaggio di orgoglio e di potenza allo Stato, nella persona del ministro della Giustizia Giovanni Conso.



Il 2 novembre 1992 il Guardasigilli aveva preso, in grande solitudine e riserbo, un provvedimento che obbediva alla politica della clemenza verso i mafiosi più pericolosi. A perorarlo non era stato solo. Poté avvalersi della compagnia del capo dello Stato Scalfaro, del capo della polizia Parisi e del neo-ministro dell’Interno (in sostituzione di Vincenzo Scotti) Nicola Mancino.

Si trattava della rinuncia a prorogare le misure del “carcere duro” previste dal 41-bis dell’ordinamento penitenziario nei confronti di un cospicuo gruppo di boss detenuti nelle carceri speciali. Questa mitigazione delle pene, secondo la testimonianza   di Tiziana Maiolo, allora parlamentare (e autrice di un bel saggio, 1992. La notte del garantismo, Marsilio, Venezia 2015) corrispondeva all’incontenibile indignazione che era cresciuta in Conso. Giuspenalista tra i migliori della disciplina universitaria, ex presidente della Corte costituzionale, candidato al Quirinale, fu sempre un cattolico fervente e un uomo probo. E’ stato sempre a disposizione di chi aveva un diritto da tutelare o una violenza subita da riscattare. Per questa ragione ha vissuto come una sorta di assedio morale, giuridico e psicologico quanto è successo dal maxi-processo di Palermo in avanti. 



Conso non poteva salutare come un successo per il diritto e per la giustizia l’aver assunto come verità storica e verità giudiziaria assoluta, come fece lo stesso Giovanni Falcone, il cosiddetto “teorema Buscetta”, cioè “il fatto che la Commissione di Cosa nostra era responsabile di tutti i delitti commessi dagli uomini d’onore”.

Nel maxi-processo veniva smantellato un principio costituzionale fondamentale come quello relativo al carattere personale della responsabilità penale. Si inventava il feticcio totemico della “responsabilità oggettiva” della Cupola, onnisciente e onnipresente, concepita come “un fatto fortemente unitario e piramidale”, a prescindere dagli atti criminali soggettivi.  

Lo Stato voleva portare a casa gli ergastoli, vedere sancita la gogna e la ghigliottina per i boss. Sono trofei che ebbe con le condanne (dalla detenzione a vita a pene diverse) di svariate centinaia di killer di Cosa nostra dimostratisi privi di ogni barlume di umanità. Ma sarebbe stato compensato con eguale moneta con le stragi di Lima, Falcone, Borsellino, Salvo, le vittime delle bombe a Firenze, Milano e Roma.

Il conto più salato lo pagarono i carcerati e le loro famiglie. Fino a costringere Riina e Provenzano ad accettare una trattativa, un negoziato, con uomini dello Stato (il colonnello Mori e il capitano De Donno). In cima al famoso “papello” (il testo dell’accordo tra Riina e lo Stato) c’era appunto lo sbaraccamento dal nostro ordinamento penitenziario del 41-bis, il cosiddetto carcere duro, nell’applicazione del quale non si fecero distinzioni tra il capo-bastone e il picciotto, trascinati in speciali luoghi di detenzione, sfiniti, senza cibo, senza indumenti. Di qui la determinazione a confessare quel che i magistrati volevano, pur di porre fine a quello che nel 1995 il Comitato europeo contro la tortura definì trattamento “inumano e degradante”.

Era stato messo a punto bloccando i trattamenti di reinserimento, attrezzando Asinara e Pianosa come carceri speciali, inventando i colloqui investigativi (grazie ai quali senza l’autorizzazione del magistrato alcuni settori delle forze dell’ordine andavano a conversare e tessere accordi con certi detenuti).  

Tiziana Maiolo ha offerto un’ampia e documentata testimonianza del clima di violenze, vere e proprie torture dei detenuti che vennero compiute in applicazione del 41-bis. E dinanzi allo sconcerto e all’orrore che le hanno suscitato ha trovato una spiegazione per gli atti della politica di clemenza del ministro Conso, del 2 novembre 1993: “…fu poco più di un fatto di routine e non riguardò assolutamente i capi delle famiglie mafiose, ma la necessità, dopo tante proteste e manifestazioni, dopo lo scandalo delle torture di Pianosa e Asinara, di riportare, per quanto possibile, la situazione carceraria su binari di normalità. Quei provvedimenti erano da tempo sollecitati dai giudici di sorveglianza e dagli stessi cappellani carcerari. Il ministro non fece altro che il proprio dovere”.

Riina, Provenzano e gli stessi fratelli Graviano restano impressionati dalla politica di apertura di Conso. La interpretano come un segnale di cedimento dello Stato. Di qui la decisione di Riina di far seguire alla revoca del 41-bis un altro “colpettino”, cioè la strage di centinaia di agenti schierati a difesa dello Stadio Olimpico di Roma. Ne viene incaricato lo stesso Graviano. Ma la miccia della micidiale carica esplosiva si inceppa.

Come mai Riina e Provenzano non autorizzano il boss a fare un secondo tentativo?Questa rinuncia può essere interpretata diversamente dalla volontà di dare seguito alla trattativa che era stata avviata con lo Stato nel perpetrare le stragi di Capaci e di Via D’Amelio? Su questa vicenda altamente illuminante, a Graviano e Riina si debbono chiedere precisazioni e confessioni meno vaghe e sfuggenti di quelle finora preannunciate.