Sono trascorsi 36 anni dalla morte di Alfredino Rampi: era il 13 giugno 1981, l’Italia dopo 3 giorni di lotta e speranza si era arresa. Quel bambino romano sprofondato in un pozzo artesiano a Vermicino, non l’avrebbe mai salvato. Aveva chiesto al papà di percorrere da solo l’ultimo tratto di prato che lo separava dalla casa della nonna: a soli 6 anni chissà che pensava di fare, magari una corsa folle nell’erba, oppure sperava di fantasticare immaginando chissà quale avventura. Peccato che i suoi piedini lo abbiano portato in un incubo senza fine. Precipitato in una cavità larga trenta centimetri ad una profondità (inizialmente) di 35 metri, Alfredino è stato inghiottito dalle tenebre, e nessuno è riuscito a riportarlo alla luce. La prima ad accorgersi della sua scomparsa era stata la nonna Veja. Poi l’arrivo dei soccorritori, della potente – ma impotente – macchina dello Stato, e delle tv, convinte che di lì a poco il salvataggio sarebbe avvenuto. Le persone davanti al televisore, anche i bambini, i coetanei di Alfredino che seguivano le sorti di quel loro coetaneo, convinti che alla fine il lieto fine sarebbe arrivato come nella più classica delle fiabe, non riuscivano ad allontanarsi dalla prima maratona tv della storia.



E poi l’arrivo di Pertini, il carismatico Presidente della Repubblica che aveva voluto supervisionare le operazioni di salvataggio, che catechizzava i soccorritori, li responsabilizzava da buon allenatore, faceva sentire forte e chiara la presenza del Paese in quello sperduto luogo di campagna. Ma nulla è servito, neanche il coraggio dei nani, dei contorsionisti, degli speleologi, dell’Uomo Ragno (l’angelo di Vermicino, Angelo Licheri) calatisi nella cavità nella speranza di afferrarlo. Alfredino è rimasto in quel pozzo, quella malattia cardiaca congenita di cui soffriva lo ha a poco a poco consumato. E con lui è rimasta l’Italia intera: che quando sente Alfredino pensa ancora al suo viso dolce, che quando ascolta Vermicino vorrebbe tornare indietro, vorrebbe fermarlo prima di quella folle corsa nel prato. Vorrebbe chiedergli di tornare mano nella mano col papà nella casa di nonna Veja: lì sarebbe stato al sicuro. Avremmo voluto non conoscerlo, il povero Alfredino.



Ma a 36 anni dall’incidente di Vermicino, cosa ne è stato degli eroi mancati che hanno provato a salvare Alfredino Rampi? Qual è il sentimento che condividono? Sicuramente il rimpianto. Ne sono la prova le parole di Maurizio Bonardo, allora caposquadra della centrale di Roma dei vigili del fuoco, che non si è mai dato pace per “la promessa non mantenuta” al papà di Alfredino e che in occasione del 30esimo anniversario della morte di Alfredino, come riportato dall’Ansa, spiegava:”Al padre, Nando ripetevo stai tranquillo, riporterò su tuo figlio. Purtropp non è stato cosi’. Il momento piu’ brutto e’ stato quando abbiamo dovuto lasciare quel posto. Se fosse successo oggi, invece, con le nuove tecnologie avremmo potuto agire più rapidamente”. Anche Tullio Bernabei, capo spelologo che all’epoca aveva 22 anni parla di “senso di colpa e ferita non rimarginabile”:”E’ mancata la riflessione tra tecnici. Forse si poteva contare di piu’ su di noi. Per me questa vicenda e’ come un tabu'”. Lo è per tutti noi.



Ma l’emblema di quella tragedia, del miracolo mancato a Vermicino, è sicuramente Angelo Licheri, l’Uomo-Ragno che Alfredino è andato davvero vicino a salvarlo. Dopo che Pertini lo aveva incoraggiato a dovere, quel facchino dalla corporatura minuta era riuscito a calarsi in una cavità in cui sarebbe potuto passare soltanto un bambino. A testa in giù è rimasto per 45 minuti e in quei tre quarti d’ora infiniti con Alfredino ha parlato rassicurandolo che tutto sarebbe andato bene. Gli prometteva che lo avrebbe portato in superficie, dai suoi genitori. Per tre volte ha provato a mettergli l’imbragatura e altrettante il corpicino del bambino di 6 anni scivolava via. A quel punto ha tentato – a suo stesso rischio – di issarlo con se: lo ha preso per la mano, ma il polso di Alfredino ha fatto crack. In quel momento, forse più che mai, si sono infrante le speranze di salvarlo. E ancora oggi che ha più di 70 anni e l’atletismo ha lasciato il posto a diversi problemi di salute (che lo costringono tra l’altro alla sedia a rotelle) Angelo Licheri non ha dimenticato:”Lo afferravo e scivolava via, non potevo fare nulla”. Un modo per auto-assolversi, per dirsi che neanche lui, il più supereroe tra gli umani, avrebbe potuto sottrarre Alfredino al destino che lo attendeva in fondo a quel maledetto pozzo di Vermicino.