Ventisette anni dopo il duplice omicidio di Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, rispettivamente imprenditore acese e ad delle Acciaierie Megara di Catania, non è ancora detta la parola fine su un caso che attende ancora di conoscere i mandanti e gli esecutori di uno degli agguati più cruenti che la cronaca siciliana, e italiana, ricordi. Una duplice esecuzione, quella avvenuta il 31 ottobre del 1990, che più volte ha rischiato di restare impunita per sempre. L’ultima esattamente un anno fa, quando il gip di Catania aveva emesso il decreto di archiviazione. Ad annullarlo, come riferisce l’Ansa, è stata la sentenza della Prima Sezione Penale della Cassazione, presidente Maria Stefania Di Tomassi, relatore Stefano Aprile, riconoscendo le ragioni dei ricorrenti, la moglie di Francesco Vecchio, Elvira Chiarenza, e il figlio Salvatore.



C’è voglia di sapere chi uccise Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta: se fu la cosca catanese dei Santapaola, magari per un pizzo non pagato del tutto o interamente; oppure se i mandanti furono i mafiosi palermitani, desiderosi di gestire come meglio credevano gli appalti legati alla produzione e alla vendita dell’acciaio. Qualunque sia la verità non si può fare a meno di pensare che la mancata archiviazione sia una buona notizia per chiunque crede nella giustizia.



Ne è convinto anche Davide Mattiello, deputato Pd, che ha commentato così la sentenza della Cassazione: “E’ una decisione che alimenta la speranza. Anche La Commissione Antimafia e in particolare il V Comitato, da me presieduto ha recentemente ascoltato Salvatore Vecchio volendo raccogliere in atti parlamentari la memoria di una vicenda che merita attenzione e che speriamo possa ancora essere illuminata dalla verità giudiziaria.

Il duplice omicidio di Vecchio e Rovetta, entrambi con responsabilità aziendali apicali, commesso a Catania il 31 Ottobre del ‘90, cioè in una città che viveva nella morsa del potere mafioso dei Santapaola, ricorda altri omicidi di persone perbene, che hanno pagato con la vita la propria normale coerenza ai doveri professionali. Non persone impegnate contro le mafie, ma persone che hanno rivendicato semplicemente il diritto di fare il proprio dovere. Mi viene in mente l’avvocato Serafino Famà, ucciso anche lui a Catania nel 1995.



In Italia questo tipo di normalità è spesso rivoluzionario e si paga a caro prezzo, per questo ogni sforzo che possa essere ancora fatto per scoprire la verità è benedetto. La pena dei familiari sopravvissuti non si prescrive mai, non esiste il conforto dell’oblio. Può esistere soltanto il conforto della verità, che per lo Stato non dovrebbe mai avere un prezzo troppo alto”