Non c’è solo una questione sportiva nelle vicende che questa settimana hanno coinvolto il giovane portiere del Milan, Gianluigi Donnarumma. Il fatto rappresenta un’iconica evoluzione dello stile e del costume della nostra società e, in specie, di quella italiana. Un ragazzo appena diciottenne, osannato e idolatrato dai tifosi della propria squadra, decide di non rinnovare il contratto per seguire altre voci ed altre sirene. Il gossip sostiene che dietro tutto questo ci sia una strategia ben precisa: c’è chi la addebita al manager del giocatore, c’è chi invece l’addebita alla stessa famiglia del portiere. 



Al di là di tutto ci sono alcuni elementi che meritano di essere sottolineati e chiariti: per i tifosi milanisti, provati dalla cessione della società alle ignote mani cinesi, “Gigio” Donnarumma era diventato uno degli ultimi punti di certezza. In questi anni bui, con pochi momenti di gioia e molte traversie, milanisti di vecchia data, bambini e famiglie erano comunque ritornati allo stadio per vedere lui — il ragazzino prodigio — in azione. Un moto di affetto ha circondato la breve carriera del numero 99 di uno dei club più blasonati del mondo. Il fatto cruciale, tuttavia, è che questo affetto, che mirava a far diventare Donnarumma una bandiera alla Totti o alla Del Piero (tanto per citare i nomi dei più famosi), considerava il sistema calcio nel modo con cui il capitalismo italiano lo ha concepito per più di trent’anni: ossia immune da un processo di globalizzazione e di relativizzazione dello sport che, in realtà, dopo la triste vicenda del “calcio-scommesse” del 2006 ha travolto la serie A italiana, marginalizzandola sempre di più nel puzzle dei campionati europei e mondiali.



C’è una crisi profonda della concezione stessa del “giuoco calcio” alla radice di queste vicende e di tante illusioni: la squadra, la partita, il gioco, è diventato il mezzo attraverso cui incrementare il capitale delle società e le rendite personali, non il fine per cui lavorare e fare scelte controcorrente. Ancora una volta il potere derivante dal denaro ha avuto la meglio sul potere derivante dalla fatica e dal sacrificio di sé. E’ questo, in fin dei conti, il cancro che ha divorato il “campionato più bello del mondo”, un cancro che la vicenda delle scommesse — attraverso cui molti giocatori si sarebbero arricchiti — ha portato sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno ha voluto davvero guardare in faccia per capire che un mondo era finito e cambiato per sempre. 



A questo, però, è opportuno aggiungere un ulteriore elemento di riflessione. Negli ultimi anni la dimensione social ha corrotto profondamente le dinamiche umane della nostra società. Il modo con cui la scelta del giocatore milanista — o di chi per lui — è stata vissuta e trattata sulle principali piattaforme di condivisione di contenuti lascia quanto meno perplessi. Non perché, nella visione romantica di uno sport che non c’è più, non sia lecito dire, ad un calciatore che volta le spalle alla squadra che lo ha lanciato, che si sta comportando da “traditore”, ma perché si pensa che l’unica soluzione ai problemi della vita, sia quelli personali che quelli collettivi, sia l’insulto, la rissa, la violenta espropriazione della dignità dell’altro che va stigmatizzato, ghettizzato e inibito fino al punto da renderlo moralmente ripugnante. Questo non va. Non va come approccio educativo, adulto, serio, al mondo. Non va come esempio per i nostri figli e per tutti i piccoli tifosi che piangono per l’affronto alla squadra del loro portiere del cuore. Non è cedendo il passo al potere che ci si realizza nella vita. Non è insultando o costruendo violenza che si aggiustano le cose. 

Se la prima lezione sarà quella che amaramente dovrà imparare Donnarumma, la seconda è invece quella che tocca a tutti gli altri, quella che decide, ogni giorno, che tipo di società vogliamo essere. Alla confusione del nostro tempo non si risponde rincorrendo il potere e il piacere, né smantellando la dignità dell’altro per sottolineare la propria. Al male di un sistema o di un fatto negativo si risponde solo ricominciando, rimettendosi in discussione, ricercando ciò che davvero tiene e rimane quando tutto crolla. E’ questo lavoro che manca ai giorni nostri, è questo lavoro che ci rende tutti più miseri e che mostra quanto bisogno abbiamo di qualcosa che, sul serio, ci cambi.