Cosa fai se a vent’anni o poco più un tribunale ti condanna a 100 anni di carcere per aver manifestato per difendere il verde di un quartiere della tua città? O accetti di morire in galera, o fuggi. Ayse Deniz Karacagil, una ragazza turca di origini curde, condannata a un secolo di galera perché trovata con una sciarpa rossa dunque per i giudici appartenente al Pkk, il partito di liberazione dei curdi considerato organizzazione terroristica da Ankara, ha deciso di fuggire, ma non per nascondersi in qualche comoda città occidentale.
Ha deciso di andare a combattere per il suo popolo, da sempre perseguitato dagli stessi che l’avevano condannata. Ma non contro di loro, come fanno appunto quelli del Pkk. Con il grande cuore che aveva dentro è andata a combattere l’Isis, aveva capito che al momento quello era il male peggiore dei due, e di quanto strazio stesse soffrendo la gente dei territori occupati dalle bestie islamiste. Così era andata al confine turco-siriano, dove i volontari curdi erano a pochissimi chilometri da Kobane, la città siriana occupata dall’Isis.
Ayse è morta nei giorni scorsi mentre combatteva per la liberazione di Raqqa, dove si stanno dirigendo le forze della Coalizione internazionale da una parte e i curdi dall’altra.
La storia delle ragazze curde che combattono era stata raccontata spesso dai media, foto di ragazze giovani e belle in divisa. Per molti era una bufala: non possono essere così belle e andare a combattere, saranno dei fotomontaggi, dicevamo, con il cinismo che ci contraddistingue, noi che siamo abituati al lato B di Belen Rodriguez.
Noi occidentali ormai non crediamo più a niente, neanche a storie romantiche e coraggiose come questa. Qualcosa però ci era arrivato: i miliziani dell’Isis quando si trovavano davanti una donna, avevamo letto, se la davano a gambe levate perché essere uccisi da una donna non ti permette di entrare nel paradiso di Allah.
Così ce la ridevamo di gusto, noi ricchi e annoiati occidentali, di questa “arma segreta” anti-islam. Tanto a noi delle migliaia di morti e di bambini usati come scudi umani, dei morti gassati da Assad, perché gli Usa ci hanno sempre voluto far credere che il cattivo di questa guerra è lui e poi si scopre che sono stati i ribelli a usare i gas, che ci frega.
C’è voluto un personaggio straordinario per parlarci di queste ragazze, quello che è considerato un fumettista e che invece è uno dei migliori scrittori giovani delle ultime generazioni (ha vinto anche un premio Strega) anche se usa i fumetti per esprimersi. Si fa chiamare Zerocalcare e viene dall’ambiente dei centri sociali romani. Nelle sue storie, un’arguta autoironia verso se stesso e l’ambiente in cui vive, ma anche una profonda analisi del disagio che tanti vivono ma non ammettono, con una sincerità e onestà oggi rarissime da trovare.
Abbiamo così conosciuto, senza saperlo, Ayse, che lui aveva disegnato nel suo bellissimo libro “Kobane Calling” chiamandola Cappuccio Rosso e che ci aveva commosso per il suo impegno di donna in guerra. Nel libro si racconta di un gruppo di giovani di un centro sociale romano che vanno vicino a Kobane a distribuire cibo e medicinali agli sfollati. Straordinaria la scena in cui un anziano curdo gli spiega la differenza fra il rumore che fanno le bombe americane, quelle dell’Isis, quelle dei curdi, che cadono tutte sui disgraziati abitanti di Kobane, per distinguerle fra loro. Avventure apparentemente esilaranti, ma non troppo, perché Zerocalcare pur morendo di paura in quelle zone di guerra ci è andato davvero.
E’ stato lui infatti a farci sapere che Ayse Deniz Karacagil è morta combattendo: “E’ sempre antipatico puntare i riflettori su una persona specifica, in una guerra dove la gente muore ogni giorno e non se la incula nessuno. Però siccome siamo fatti che se incontriamo qualcuno poi per forza di cose ce lo ricordiamo e quel lutto sembra toccarci più da vicino, a morire sul fronte di Raqqa contro i miliziani di Daesh è stata Ayse Deniz Karacagil, la ragazza soprannominata Cappuccio Rosso. Turca, condannata a 100 anni di carcere dallo stato turco per le proteste legate a Gezi Park, aveva scelto di andare in montagna a unirsi al movimento di liberazione curdo invece di trascorrere il resto della sua vita in galera o in fuga. Da lì poi è andata a combattere contro Daesh in Siria e questa settimana è caduta in combattimento. Lo posto qua perché chi s’è letto Kobane Calling magari si ricorda la sua storia“.
“Siamo fatti che se incontriamo qualcuno ce lo ricordiamo”: che straordinaria lezione di vita, di cuore. Purtroppo siamo sempre meno così. Ci voleva una ragazza condannata a un secolo di galera morta per la cosa che noi occidentali non sappiamo più manco che significa, la libertà, per ricordarcelo.
Perché se l’Isis sarà sconfitto non sarà per gli inciuci di Trump, Putin ed Erdogan, e se non ci saranno più attentati in Europa lo dovremmo ad Ayse. Sperando che qualche leader illuminato occidentale si ricordi che in Turchia i ragazzi vengono condannati a cento anni di carcere per aver difeso il verde di un parco.
“A me risulta difficile concepire un’appartenenza diversa dal mio quartiere. Forse però ci sono cose che trascendono la geografia. E parlano ad altre corde, che manco sappiamo di avere“: grazie Zerocalcare.