Una scomunica non solo per i mafiosi, ma anche per i corrotti. Di questa eventualità si discute da alcuni giorni nella Chiesa perché è quanto emerso da un importante convegno svoltosi in Vaticano il 15 giugno scorso e promosso dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale in collaborazione con la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, dal significativo titolo: “Dibattito Internazionale sulla Corruzione”. Il triste fenomeno è stato affrontato a livello globale non solo in senso geografico, ma anche in senso integrale in quanto riguarda la politica, l’economia, la cultura, la morale, la religione. Vi hanno partecipato circa 50 tra magistrati anti-mafia e anti-corruzione, vescovi, personalità di istituzioni vaticane, degli Stati e delle Nazioni Unite, capi di movimenti, intellettuali e alcuni ambasciatori. Al dibattito non ha fatto mancare il suo contributo papa Francesco, attraverso la prefazione al libro del cardinale Peter TurksonCorrosione (Rizzoli). Bergoglio in persona ha scritto che la Chiesa è chiamata a svolgere un ruolo di prima linea nella ricostruzione “di un nuovo umanesimo forte e costruttivo, un rinascimento, una ri-creazione che possiamo realizzare con audacia profetica” mentre la Chiesa non deve aver paura di “purificare se stessa”. Tra i protagonisti dell’iniziativa c’è anche mons. Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, che da tempo si batte sul tema della lotta alla mafia e che non ha mai fatto mancare le sue chiare prese di posizioni su questo tema.



Mons. Pennisi, come si è giunti al punto di pensare ad una scomunica per chi corrompe?

Partiamo dalla Chiesa. Anche se la corruzione è un fenomeno antico, la percezione della sua diffusione a livello planetario è relativamente recente. Questo tema appare nei documenti dell’insegnamento sociale della Chiesa in modo esplicito nell’ultimo trentennio nelle encicliche di Giovanni Paolo II Sollicitudo Rei socialis del 1987 e nella Centesimus Annus del 1991, dove si segnala il perverso rapporto fra corruzione e mancato sviluppo. In maniera più organica l’argomento è affrontato nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa del 2004, in cui il tema è legato alla “deformazione del sistema democratico […] che distorce alla radice il ruolo delle istituzioni rappresentative, perché le usa come terreno di scambio politico tra richieste clientelari e prestazioni dei governanti” (n. 411). Ma con papa Francesco è divenuto particolarmente attuale.

In che senso?

Già da cardinale, Bergoglio affermava la necessità di distinguere il peccato, per il quale c’è sempre il perdono, dalla cultura della corruzione, malattia cronica dalla quale occorre guarire con un cammino faticoso. Poi è più volte intervenuto su questo tema sia in documenti quali l’esortazione Evangelii Gaudium e l’enciclica Laudato Si’, sia in discorsi ufficiali e nelle meditazioni mattutine nella cappella di Casa santa Marta. Per esempio l’11 novembre 2013 ai parlamentari italiani aveva detto “Peccatori sì, corrotti no” e il 21 marzo 2015 a Napoli usando un neologismo colorito aveva affermato: “La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza”.

E rispetto alla società che cosa si può dire?

Partiamo dal dato incontrovertibile che una particolare forma di corruzione che ha rapporto con l’economia e la politica viene esercitata dalle varie mafie. Ormai il fenomeno mafioso è molto diffuso e va oltre i confini della Sicilia e dell’Italia stessa, fino a radicarsi in territori una volta insospettabili e in tutti gli ambiti legati soprattutto al potere economico.Negli ultimi decenni è maturata nella Chiesa una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana.

Quindi, a suo giudizio, c’è anche una responsabilità della Chiesa?

Sì, nel senso che è compito della Chiesa sia aiutare a prendere consapevolezza che tutti, anche i cristiani, alimentiamo l’humus dove alligna e facilmente cresce la mafia, sia indurre al superamento dell’attuale situazione attraverso la conversione al Vangelo, capace di creare una cultura antimafia fondata sulla consapevolezza che il bene comune è frutto dell’apporto responsabile di tutti e di ciascuno. Basterebbe, a tal proposito, ricordare gli innumerevoli interventi degli ultimi tre Papi.

E la Chiesa cosa chiede ai mafiosi?

La Chiesa, in forza della sua stessa missione, rivolge ai mafiosi l’appello alla conversione. Tuttavia essa deve vigilare affinché l’esercizio del ministero di annuncio della misericordia di Dio non sia strumentalizzato dal mafioso, ad esempio durante la sua latitanza, e non si configuri, di fatto, come copertura o favoreggiamento di quanti hanno violato e talvolta continuano a violare la legge di Dio e quella degli uomini. Nel caso del mafioso, la conversione comporta un impegno fattivo affinché sia debellata la struttura organizzativa della mafia.

Quindi, non è un fatto che riguarda solo la coscienza?

Nel suo appello alla conversione la Chiesa non può non fare presenti le esigenze proprie della conversione cristiana e quindi non ricordare, anche ai mafiosi, almeno due cose. La prima: che la conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione pubblica ed esige comunque la riparazione. Nel caso del mafioso, la conversione non potrà certo ridare la vita agli uccisi, ma comporta comunque un impegno fattivo affinché sia debellata la struttura organizzativa della mafia, anche con l’indicazione all’autorità giudiziaria di situazioni e uomini, che se non fermati in tempo, potrebbero continuare a provocare ingiustizie. La mancanza di una tale indicazione da parte del mafioso convertito, oltre a configurarsi come atto di omertà, sembra ignorare il dovere della riparazione.

E la seconda?

Non si deve dimenticare che c’è un nesso tra peccato di cui ci si pente e pena da assumere in espiazione del peccato. Nel caso di peccati legati all’appartenenza mafiosa, la “soddisfazione” del peccato sia da vedere anche nelle pene sancite dalla condanna detentiva della magistratura, alle quali perciò il mafioso convertito potrebbe cercare di non sottrarsi.

Sì, ma poi deve esserci un legame con le pene canoniche da infliggere al mafioso?

Qui il discorso è più complesso ed è proprio il terreno da approfondire. Intanto esistono le scomuniche inflitte ai mafiosi dalla Conferenze episcopali regionali. Quella siciliana, che lo ha fatto nel 1982, confermando le precedenti scomuniche, ne individua esplicitamente la matrice mafiosa, e precisa che “a tutte le manifestazioni di violenza criminale e quindi anche quelle di stampo mafioso così come vengono oggi perpetrate […] si applicano le norme sancite dai vescovi siciliani, sia nel 1944 che nel concilio plenario siculo”. Ad essa si è aggiunta anche quella della Conferenza calabrese. E poi c’è la ormai famosa scomunica lanciata da papa Francesco nella piana di Sibari il 21 giugno 2014, che mette nello stesso atto di condanna sia la ‘ndrangheta che la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza.

Ma così potrebbe apparire che la scomunica riguarda singoli territori e singole Conferenze episcopali?

Appunto. Sì, c’è la necessita di un testo legale, cioè una legge penale emanata in forma scritta e promulgata dalla competente autorità munita di potestà legislativa, ove è determinata la fattispecie delittuosa, il tipo di pena, l’autorità che la può irrogare e rimettere. Altrimenti potrebbe accadere che un delitto di stampo mafioso nelle Diocesi della Sicilia, della Calabria o della Campania venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica. 

Perché tutto ciò?

Questo vuoto normativo a livello universale lo si può comprendere con la difficoltà che si è avuto nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali abbia potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società sia a livello nazionale che internazionale. L’eventuale legge penale universale, dovrebbe contenere una configurazione del delitto canonico di mafia la più ampia possibile, appunto perché il fenomeno assume oggi contorni globali. La scomunica comminata è una pena medicinale, è un monito in vista di un possibile ravvedimento.

Torniamo all’inizio, alla corruzione. Cosa occorre fare?

Alla comunità cristiana si richiedono gesti originali che portino ad una prevenzione dei reati collegati col fenomeno mafioso, impegnandosi per la diffusione di una cultura della legalità e all’educazione, a non fare del denaro e della ricerca smodata del potere gli idoli a cui sacrificare tutto a partire dalla vita delle persone. La resistenza alla mafia esige un rinnovato impegno educativo che porti ad un cambiamento della mentalità e dei comportamenti concreti.

E più in concreto?

E’ necessaria una mobilitazione delle coscienze che, insieme ad un’efficace azione istituzionale e ad un ordinato sviluppo economico, possa frenare e ridurre il fenomeno criminoso. Il senso della legalità non è un valore che si improvvisa. Esso esige un lungo e costante processo educativo. La sua affermazione e la sua crescita sono affidati alla collaborazione di tutti, ma in modo particolare alla famiglia, alla scuola, alle associazioni giovanili, ai mezzi di comunicazione sociale, ai vari movimenti che nel Paese hanno un potere di aggregazione e un compito educativo, ai sindacati, alle organizzazioni di categoria, agli ordini professionali, ai partiti e alle varie istituzioni pubbliche.

E la chiesa sul territorio? Le parrocchie, i movimenti, eccetera?

La comunità cristiana, con le sue varie strutture, è anch’essa impegnata in quest’opera formativa: le parrocchie attraverso la catechesi e le molteplici iniziative culturali, formative e caritative; l’insegnamento della religione ha un ruolo importante; l’associazionismo, specie giovanile, con un’attenta considerazione dell’itinerario formativo della persona; il volontariato, che si pone al servizio delle persone in difficoltà e che è chiamato a testimoniare la dedizione, la condivisione, la gratuità in una funzione non solo di supplenza delle carenze sociali, ma anche propositiva, per eliminare le cause che generano le molte povertà materiali e spirituali delle quali l’uomo di oggi soffre.

Ma il contesto sociale in cui viviamo sembra affermare altri valori. Che fare?

Legalità, socialità, pace: sono valori strettamente collegati, non dissociabili uno dall’altro. La loro attualità è permanente, se non perenne. L’illegalità, organizzata o individuale ed episodica, non recede dagli ambienti che è riuscita a inquinare o controllare. La socialità, intesa come apertura della coscienza e della volontà al bene comune, sembra seriamente minacciata dall’individualismo, dal corporativismo, da una visione grettamente o sottilmente improntata a utilitarismo, la quale condiziona e orienta la vita di molte persone, famiglie, aggregazioni d’interessi.

Dunque, siamo appena agli inizi?

Agli inizi, no, come dimostrano i tanti documenti e le tante affermazioni che ho citato e che si potrebbero citare. C’è forse da fare un salto di qualità che il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale si è impegnato a fare e che deve far giungere il diritto canonico ad una definizione del fenomeno, sia mafioso che corruttivo, più preciso, sia a pene più chiare, che non perdano mai di vista la possibile conversione del soggetto in questione. A questo mira la Chiesa, non certamente ad un giudizio senza appello.