Costretti, volenti o nolenti, ad aggiornare la lista dei profeti: “Mazzolari Primo” (presente), “Milani Lorenzo” (presente). Per decenni questi due preti sono parsi — sono stati fatti apparire — brutte copie di sacerdozi-sbagliati: oggi il Papa, come un riparatore di storie, rimette le mani dentro quel cestino e ripesca quei due nomi appallottolati. Poi, seduto in cattedra, li pronuncia ad alta-voce: che nessuno più li derida. Loro, don Lorenzo e don Primo, due preti vissuti scalzi e pellegrini in una terra che si sono ostinati a credere santa. Barbiana, nel Mugello, fu la terra-santa di don Lorenzo Milani; Bozzolo, nel mantovano, fu la terra-santa di don Primo Mazzolari. Là c’erano vite senza parole, storie senza memoria, strade slabbrate: oggi sono stazioni di partenza sorte per non lasciare in pace nessuno. Stazioni che narrano l’insofferenza di chi non ha più tempo da perdere: “Perché ha fiducia nell’uomo, (Cristo) gli parla da uomo, con sincerità e franchezza” (P. Mazzolari). Come loro, piccole copie-in-miniatura di un Dio del quale pare chiaro abbiano fatto un’enorme indigestione. Devoti della Parola.
Armato del suo magistero dei gesti — che trafiggono l’immaginazione molto più di una grammatica di parole — Francesco s’inventa pellegrino di pace e tessitore di memoria in terre-di-confine, ridotte al confino, costrette al silenzio: la verità chiede il tempo lungo del martirio per riuscire a svelare chi è, che cosa ha intenzione di fare, da dove arriva. Verso dove sta andando. Tempi che, qualora uno non fosse profeta, l’uomo non riuscirebbe a sopportare, tanto meno ad abitare. Tempi — che sono stagioni di sudore, d’umiliazione, di fraintendimenti — nei quali germoglia un’evidenza che, quando appare, stordisce: sono sempre i cani fedeli al padrone quelli che abbaiano in caso di pericolo. Il loro abbaiare dice appartenenza, amore viscerale, sacro furore d’esserci da protagonisti: il contrario sono i cani drogati dai ladri, il mercenario al quale le pecore non appartengono, storie senza passione nelle vene.
Barbiana e Bozzolo, dopo loro due, non sono più solo nomi propri di terre. Ammirateli nella loro vera presenza: non c’è tratto di poesia, vi si avverte l’urto disgraziato della tragedia, l’epopea di lotte partigiane, di sogni spinti al limite dell’impossibile. Sono grembo orgoglioso nel quale sono sbocciati due sacerdozi così divini d’apparire eretici: è logica del mondo quella di dire pazzi coloro che pagano con la vita il voler assomigliare al Cristo-incontrato. Preti per i quali credere all’esistenza di Dio non è mai stato il vero problema, che è sempre rimasto un altro, più difficile d’ammettersi: “Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco perché gli voglio bene. E capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza” (L. Milani). Ci vuol fegato a spingersi quassù, sposare una fede affettuosa, lasciar perdere una fede sentimentale, da geometri. Troppo romantica per i selvatici-di-Dio.
A renderli grandi non sono stati i cervelli dati loro in dotazione dalla natura, che pur farebbero impallidire ancor oggi retori, ingegneri e teologi. A fare di loro dei profeti aguzzi fu l’aver fatto del Cristo-oltraggiato il loro più intimo patimento: l’analfabeta di Barbiana, il reduce di Bozzolo, l’escluso d’allora, quello di oggi, di domani. Aggrappati ad un pugno di parole, capaci di incidere nel quotidiano in virtù dell’incarnazione: “Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere” (L. Milani). Il povero: e, dopo il povero, tutto il resto. Anche Dio, il che sembra bestemmia. Non per loro due, che Dio sapevano di riuscire a rintracciarlo solamente nella trincea della carne sofferente, della bellezza derisa, delle cisterne screpolate. Nelle loro parole aguzze e ustionanti non ci sono citazioni: “Se per stare in piedi abbiamo proprio bisogno di un altro, che almeno l’Altro abbia il volto e il cuore del Padre” (P. Mazzolari). Dio basta.
E’ visita privata, in punta di piedi, voce-bassa. A toccarli ancora bruciano.