Si è concluso tragicamente un altro capitolo dell’efferata storia di violenza che ha coinvolto due giovani della Roma bene, due organizzatori di eventi “in”, tanta gnocca e non solo, alcol, droga, perversione, eccesso, fino al massacro insensato, il 4 marzo 2016, di una vittima designata a caso, Luca Varani, colpito a martellate dopo una nottata a tre e accoltellato duecento volte, lasciato agonizzante con una lama nel cuore mentre gli assassini russavano a letto.



Marco Prato, detenuto nel carcere di Velletri, si è tolto la vita stamattina con un sacchetto di plastica legato intorno alla testa. Dopo aver scritto una lettera, in cui spiega il perché del suo gesto. Rimorso insostenibile, diremmo noi poveretti. Neanche per idea: non resisteva più alla pressione mediatica, alle menzogne su di lui, scrive. 



Quale pressione, in carcere? Che bugie, visto che se non è stato l’ideatore del delitto, ne è stato complice e coautore? Tropo facile definirsi “succube” del compagno di sadismo e torture. Ma chi ha saputo solo vivere social non regge, se ha i social contro o se si spengono sulla sua vita. Chi non è mai cresciuto, né è stato aiutato a crescere, non si rende conto neppure dei suoi reati, o peccati, fino all’obnubilamento della coscienza. 

C’è una corruzione peggiore di chi ruba, ed è la corruzione dell’anima. L’essere così preda del male da non riconoscerlo, da godere nel vederlo, realizzarlo, per poi negare perfino di esserne parte. Certo, una vita è una vita, e che pena, che angoscia, che vergogna per una generazione di adulti che ha dato così poco ai suoi figli per vederli finire così. Ma il male è personale, la sua responsabilità mai collettiva, checché ne dica la sociologia buonista corrente.  



Basta parlare di giovani, a trent’anni compiuti, quando si è uomini fatti. Basta parlare di follia, se non è diagnosticata come patologia psichica. Anche la soggezione agli stupefacenti che rende malata la mente non è una giustificazione. C’è la possibilità di scegliere, e continuare a scegliere. Non si trattava di due disperati privi di lavoro e casa, scappati dalla miseria e perduti nell’insensatezza per non dover soffrire. Se la passavano bene, avevano soldi e un nome, poveretti loro. La pietà che è diventata facile elemosina va ragionata. 

Pietà ce l’avrà Dio, è affar suo. A noi è richiesta la giustizia e una preghiera, per chi ci crede, perché l’abisso di tanto male abbia fine, e con esso il dolore di tutte le persone coinvolte, le famiglie della vittima e dei criminali (che non dovrebbero essere difesi, perché, ricordiamo, non si sono né pentiti né disperati per la mattanza). 

Vedo che si indaga da subito sull’istigazione al suicidio. Di chi? Di Facebook? Di chi li avrebbe bollati come bestie feroci? Perché, bisognava usare cautele verbali? Anche il suicidio è una scelta del male. Non è un atto di coraggio, come troppa letteratura romantica ci ha fatto credere, ma di viltà, è una fuga. Se vivi per l’immagine che ti sei costruito, e rompi lo specchio, non esisti più, tanto vale sparire. 

C’è gente anche in carcere che riconoscendo il proprio male è cambiata, ha ridato un significato e un onore alla vita. C’è chi ha scelto il demonio, e il demonio corrode: non a caso i due assassini si sono accusati e traditi a vicenda, non a caso non hanno avuto il fegato di inchinarsi gementi davanti ai genitori di Luca Varani, alla sua fidanzata; non a caso uno ha scelto la morte. Al diavolo tocca saper dir di no, implorando aiuto, da Dio e dagli uomini.