Anche se molti cattolici, in particolare quelli più conservatori, trovano spesso papa Francesco un po’ provocatorio per il sistema, il responsabile dell’influente movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione afferma che se non pensiamo che il Papa sia la cura, è perché non capiamo la natura della malattia che ci troviamo ad affrontare nel mondo secolarizzato della post-modernità.
Meglio di molti altri, probabilmente, don Julián Carrón, succeduto al carismatico sacerdote italiano don Luigi Giussani alla guida dell’influente movimento di Comunione e Liberazione, il cui bacino naturale è quello del mondo cattolico più conservatore, ha compreso che papa Francesco può rappresentare una scossa per il sistema.
Per questo è un fermo sostenitore di Francesco, e insiste nell’affermare che se non pensiamo che questo Papa sia la cura, è perché non capiamo la natura della malattia che ci troviamo ad affrontare nel mondo secolarizzato della post-modernità.
«A volte non capiamo certi gesti del Papa perché non capiamo fino in fondo le implicazioni di ciò che egli definisce un “cambiamento di epoca”», ha detto Carrón a Crux lunedì scorso.
«È come considerare un tumore come un semplice caso di influenza, così che l’idea di curarsi con la chemioterapia sembrerebbe troppo drastica» ha aggiunto. «Ma una volta che abbiamo capito la natura della malattia, ci rendiamo conto che non saremo in grado di sconfiggerla con l’aspirina».
Nella sua abitazione milanese, tra gli altri argomenti, Carrón ha parlato con Crux dell’edizione in lingua inglese del suo libro La bellezza disarmata (Disarming Beauty) sulla natura dell’«avvenimento» cristiano.
«I cambiamenti che stiamo attraversando sono così radicali, così senza precedenti, che capisco perché tante persone non comprendano ancora cosa stia accadendo, o i gesti di papa Francesco», ha affermato. «Ma se non comprendiamo questi gesti adesso, li capiremo quando ci renderemo conto delle conseguenze che stanno producendo».
Carrón sostiene che ciò che è accaduto nella modernità è il fatto che le persone hanno perso di vista cosa significhi essere uomini; la crisi dunque è molto più profonda che non il semplice rifiuto di questo o quel precetto morale, e ciò di cui c’è bisogno oggi non sono richiami morali o argomenti teologici, ma il potere di attrazione che ha una vita cristiana vissuta pienamente.
«Vedo che molte persone sono turbate e imbarazzate dal Papa, proprio come le persone lo erano da Gesù nel suo tempo – e in particolare, ricordiamolo, le persone più “religiose”», dichiara. «Per esempio i Farisei, che non vedevano tutto il dramma della situazione degli uomini che avevano davanti, volevano un predicatore che semplicemente dicesse agli uomini cosa dovevano fare, imponendo loro dei pesanti fardelli».
«Tutto ciò non bastava a far ripartire l’umanità, poi venne Gesù, che entrò in casa di Zaccheo senza chiamarlo ladro e peccatore; questo avrebbe potuto sembrare una debolezza. Invece nessuno sfidò Zaccheo come fece Gesù», ha detto Carrón.
«Tutti quelli che avevano condannato la sua condotta di vita non lo avevano smosso, di un millimetro dalla sua posizione. È stato quel gesto totalmente gratuito di Gesù che riuscì dove gli altri avevano fallito», ha dichiarato.
Fondato da Giussani nel 1954, Comunione e Liberazione è un movimento ecclesiale laico nella Chiesa Cattolica; è particolarmente diffuso in Italia, ma è presente oggi in circa ottanta paesi nel mondo. Ha avuto illustri estimatori negli anni, tra questi il papa emerito Benedetto XVI, che celebrò le esequie di Giussani e che ha quali collaboratrici domestiche alcune donne del gruppo di CL dei Memores Domini.
Nato in Spagna e per molto tempo accanto a Giussani, Carrón ha assunto la guida di Comunione e Liberazione nel 2005, dopo la morte del fondatore.
Lungi dal percepire una frattura tra Francesco e i suoi predecessori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Carrón insiste nell’affermare che Francesco incarna oggi la “radicalizzazione” di Benedetto.
«Dice le stesse cose, ma in una forma che raggiunge chiunque, semplicemente attraverso i gesti, senza per questo ridurre in alcun modo la profondità di ciò che ha detto Benedetto», ha affermato.
In sostanza, il libro di Carrón è una sintesi della visione della vita cristiana proposta da Giussani, così come è stata amplificata da ognuno dei tre ultimi Pontefici. L’idea chiave è che il cristianesimo è una «bellezza disarmata», ossia un modo di vivere che si impone attraverso nessun altro potere se non quello dell’attrattiva che esso ha in sé.
«Volevo mostrare che il potere della fede sta nella sua bellezza, nella sua attrattiva. Non ha bisogno di nessun altro potere, di nessun altro strumento o di circostanze particolari per risplendere, così come le montagne non hanno bisogno di nient’altro per toglierci il respiro».
Di seguito la prima parte della conversazione di Crux con Carrón. La seconda sarà pubblicata domani.
Il titolo Disarming Beauty è una risposta esplicita al terrorismo e alla violenza di matrice religiosa?
È una risposta esplicita a un modo di vedere la fede, a partire da ciò che la rende unica. San Paolo una volta definì ciò che Dio realizzò nel farsi uomo come uno “spogliarsi” della sua divinità, del suo potere divino. Gesù è apparso nella storia spogliato di ogni sorta di potere, con il solo splendore della sua verità che emanava dalla sua persona, dal suo modo di agire, di guardare, di entrare in rapporto con gli altri, la sua misericordia, la sua capacità di abbracciare le persone e condividere la loro vita, di condividere le ferite degli altri. Tutta la potenza del suo amore per noi è passata attraverso la sua “umanità disarmata”.
Uno dei saggi nel libro è stato scritto subito dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi; in esso lei afferma che la sfida è creare uno spazio per «un incontro reale tra proposte di significato, pur diverse e molteplici». Può spiegarci a che cosa si riferisce?
Tantissime persone sono alla ricerca di un significato per la loro vita, di una ragione per andare al lavoro, per creare una famiglia, per affrontare la realtà, e spesso non la trovano e cercano di sfuggire in modi diversi. La questione fondamentale è questa: in un momento in cui il valore assoluto per noi moderni è la libertà, la sola possibilità di non ricadere nella forza per limitare la libertà altrui è che vi sia uno spazio in cui le persone si possano incontrare liberamente, per condividere il significato della vita, ciò che ognuno pensa che significhi vivere pienamente. Se ciò non accade, allora il vuoto che rimane finisce per generare conflitti.
Le persone non possono vivere senza un significato, e se rimane il vuoto finiremo per generare persone che prima o poi subiranno la tentazione della violenza… a casa, sul lavoro, e in qualche caso finiranno nel terrorismo. Il problema è come rispondere alla mancanza di significato che molte volte vediamo nella società oggi. Possiamo venirne fuori solo in una società libera, in uno spazio libero, in cui le persone possano incontrarsi e confrontarsi riguardo alle forme con cui ognuno sceglie di vivere, e su come sia possibile fare scelte diverse.
Lei dice che stiamo sperimentando una «profonda crisi dell’umano». Crede che anche papa Francesco abbia la stessa percezione, e come le sembra che egli stia cercando di rispondervi?
Egli è profondamente consapevole che la prima questione riguarda la natura della crisi, perché essa viene spesso ridotta semplicemente a una crisi economica, o a un problema di valori, mentre è molto più profonda. Riguarda ciò che ci rende uomini, la passività che vediamo in molti giovani che sembrano non avere le motivazioni neppure per lasciare la casa…
È quello che Giussani chiamava «effetto Cernobyl», giusto? È come se una sorta di radiazioni avesse svuotato le persone di significato.
Esatto, questo svuotamento dell’umanità, che lascia le persone incapaci di provare un interesse vero per qualcosa. È un problema che ha la sua radice nell’indifferenza, nell’apatia. Troppo spesso cerchiamo di rispondervi con delle regole, delle procedure, per cercare almeno di limitare la violenza che spesso nasce da questa indifferenza. Ma tutto ciò risponde alle conseguenze, non va alla radice del problema. Finché non rispondiamo ai bisogni reali delle persone, risvegliando la loro capacità di trovare un significato che renda la vita vivibile, inevitabilmente non risponderemo alla reale natura della crisi, le cui radici stanno in questa riduzione di ciò che significa essere uomini.
Questo è il motivo per cui sono ottimista, perché sono convinto che il cristianesimo può offrire il suo contributo più grande proprio in questa situazione. Cristo ha cominciato tutto incontrando delle persone che guardando a lui si sono trovate a dire: «Non abbiamo mai visto nulla di simile», e lo hanno seguito. Non c’era alternativa alla sua presenza, e quell’incontro ha dato inizio alla più grande rivoluzione della storia. La sola questione è se siamo consapevoli di quale incredibile grazia noi abbiamo in quanto cristiani.
Come, secondo lei, papa Francesco porta avanti questa idea della fede come un’esperienza che si radica in un incontro?
Egli è capace di presentarla nel modo più semplice, attraverso i gesti che compie, la sua attenzione alle persone, il modo con cui parla con chiunque. Conduce le persone a capire nel modo più semplice, con i gesti, nello stesso modo con cui Gesù si rendeva comprensibile attraverso i gesti.
È difficile aiutare le persone a comprendere tutte le dimensioni di fenomeni come l’immigrazione, per esempio, ma quando lui è andato a Lampedusa ha reso tutto visibile in un istante, era impossibile non capire cosa stava dicendo. Ci ha fatto sentire il desiderio di capire da dove veniva tutto ciò. Lo stesso accade quando si accosta a qualcuno che ha problemi sul lavoro, o che ha bisogno di perdono. È come Gesù, che si trovava di fronte a tutte le ferite del suo tempo e rispondeva a quelle ferite.
Eppure sembrerebbe che alcuni non capiscano il Papa, o forse non sono d’accordo con lui. Ha citato Lampedusa… il sindaco del comune, che era famoso in tutto il mondo per la sua azione di accoglienza dei rifugiati, è stato appena sconfitto alle elezioni, arrivando terzo.
I cambiamenti che stiamo attraversando sono così radicali, così senza precedenti, che capisco perché tante persone non comprendano ancora cosa stia accadendo, o i gesti di papa Francesco. Ma se non comprendiamo questi gesti adesso, li capiremo quando ci renderemo conto delle conseguenze che stanno producendo.
Se cominceremo davvero a prendere sul serio il problema dell’immigrazione, il problema della povertà, le difficoltà di moltissime persone ferite, sole, bisognose di misericordia, ciò porterà a un certo clima sociale, e allora vedremo le conseguenze, in un modo che nemmeno immaginiamo. Per esempio, quando il Papa usa il termine «muri», si riferisce a situazioni che solo dieci o quindici anni fa sarebbero state inimmaginabili. Voglio dire, un muro nel cuore dell’Europa più di vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino?
La nostra capacità di comprendere [il Papa] dipende dalla nostra capacità di comprendere la natura della sfida che abbiamo davanti. A volte non capiamo certi gesti del Papa perché non capiamo fino in fondo le implicazioni di ciò che egli definisce un «cambiamento di epoca». È come considerare un tumore come un semplice caso di influenza, così che l’idea di curarsi con la chemioterapia sembrerebbe troppo drastica. Ma una volta che abbiamo capito la natura della malattia, ci rendiamo conto che non saremo in grado di sconfiggerla con l’aspirina.
Nel libro lei passa disinvoltamente dal citare Giovanni Paolo II a Benedetto, a Francesco. Spesso questi tre Papi sono messi in contrapposizione l’uno con l’altro, me lei sembra vedere una grande continuità fra loro.
Vedo una grande armonia, anche se ognuno di essi ha dovuto affrontare tempi diversi. È ciò che il cristianesimo ha sempre fatto. Ognuno ha affrontato un insieme di condizioni storiche in cui la vita cristiana era chiamata a svilupparsi, e ogni epoca reca un diverso insieme di sfide a cui il cristianesimo è chiamato a rispondere concretamente. Giovanni Paolo II ha stupito tutti con la sua capacità di comunicare. Sembrava difficile trovare un altro come lui, e poi è arrivato Benedetto che ha colpito tutti per la sua intelligenza, la sua capacità di discernimento e di mettere in luce certi temi in un modo che nessun altro avrebbe potuto fare.
Dopo Benedetto, ancora una volta sembrava che non potesse esserci nessun altro come lui. Invece è arrivato un Papa che a mio parere è la radicalizzazione di Benedetto. Dice le stesse cose, ma in una forma che raggiunge chiunque semplicemente attraverso i gesti, senza per questo ridurre in alcun modo la profondità di ciò che ha detto Benedetto. Mi sembra che tutti e tre siano andati alla radice delle cose, non sono rimasti alla superficie, ma sono andati al cuore di ciò che stava concretamente accadendo nel loro tempo.
In questo senso, c’è un’armonia che colpisce anche tanti laici, ed è la capacità che la Chiesa sembra avere di dare un contributo nuovo e originale per affrontare le nuove sfide che ha di fronte. In questi tre Papi ne abbiamo un chiarissimo esempio: ognuno di loro, nel suo momento storico, ha saputo rispondere alle sfide di quel momento.
Lei non ama le etichette politiche, ma sa bene che Comunione e Liberazione ha una grande reputazione nella Chiesa, specialmente tra i cattolici più “conservatori”. Alcuni di questi sono oggi preoccupati riguardo a papa Francesco, pensano che egli stia in un certo senso “riducendo” le cose, mettendo da parte o minimizzando la dottrina tradizionale. Cosa si sentirebbe di dire per tranquillizzarli?
La prima cosa che direi è che dobbiamo partire dal riconoscere la reale natura della sfida che abbiamo di fronte. Non possiamo comprendere pienamente l’azione di papa Francesco, se non comprendiamo la natura di ciò che si sta verificando, questo «cambiamento di epoca». Se la nostra diagnosi non tiene conto di questo, non potremo cogliere l’importanza di certi gesti di questo Papa. Se cominceremo a capire la profondità della crisi, invece, allargheremo i nostri orizzonti e cominceremo a vedere certi gesti come una risposta profetica a questa nuova situazione.
Vedo che molte persone sono turbate e imbarazzate dal Papa, proprio come le persone lo erano da Gesù nel suo tempo – e in particolare, ricordiamolo, le persone più “religiose”. Per esempio i Farisei, che non vedevano tutto il dramma della situazione degli uomini che avevano davanti, volevano un predicatore che semplicemente dicesse agli uomini cosa dovevano fare, imponendo loro dei pesanti fardelli. Tutto ciò non bastava a far ripartire l’umanità, poi venne Gesù, che entrò in casa di Zaccheo senza chiamarlo ladro e peccatore; questo avrebbe potuto sembrare una debolezza. Invece nessuno sfidò Zaccheo come fece Gesù, soltanto con l’entrare in casa sua. Tutti quelli che avevano condannato la sua condotta di vita non lo avevano smosso di un millimetro dalla sua posizione. È stato quel gesto totalmente gratuito di Gesù che riuscì dove gli altri avevano fallito.
Che cosa occorre per cambiare una società come quella in cui viviamo? Il metodo usato da Gesù con Zaccheo. [Con papa Francesco] dobbiamo ricordarci del modo con cui molte persone perbene, sinceramente religiose, hanno reagito a Gesù. Per loro, il modo con cui Gesù operava era una sorta di scandalo, nel senso più forte del termine, un ostacolo a credere.
Sta dicendo che quei fedeli cattolici che criticano papa Francesco, per esempio riguardo alla Amoris Laetitia, non hanno capito che cosa è in gioco nella cultura di oggi?
Credo di sì. Credo che ciò che manca oggi sia una comprensione profonda della sfida che dobbiamo affrontare sul piano umano. A volte i critici vorrebbero che il Papa ripetesse certe frasi, certi concetti, ma essi sono vuoti per molte persone, e lo sono da molto tempo. Oppure vorrebbero delle regole da seguire, come se ciò potesse guarire la persona, o potesse condurre qualcuno a “verificare” la fede nella propria esperienza. Il problema che abbiamo tutti, noi compresi, è che spesso non siamo capaci di trasmettere la fiducia nel futuro ai nostri colleghi di lavoro, ai nostri amici. Solo se saremo audaci nel riconoscere la situazione, senza sentire sempre il bisogno di difenderci, forse impareremo qualcosa.
È chiaro che ciò che preoccupa certe persone è il fatto che quando Gesù incontrò Zaccheo, il punto era di portarlo a cambiare il suo cuore. Oggi, ad alcuni sembra che il Papa, e con lui certi preti e vescovi, si impegnino in un “incontro” senza la stessa aspettativa che vi sia una conversione dagli errori.
La conversione non dipende dal gesto, dipende da noi. Quando andiamo a incontrare un ladro, noi portiamo noi stessi a quell’incontro. Gesù non ha avuto problemi ad andare a casa di Zaccheo, senza bisogno di spiegargli tutta la sua teologia o le regole morali. È andato perché la verità si incarnava nella sua persona. Il problema è: che persone incontra chi ci incontra? Se quello che incontrano in noi è semplicemente un manuale di cose da fare, lo conoscono già e non sono capaci di metterlo in pratica. Ma se si trovano davanti una persona che offre loro amore, cominceranno a desiderare di andar dietro a quella persona e di essere come lei, che è ciò che è accaduto con Gesù.
Credo che molti sarebbero d’accordo sul fatto che non bisogna partire dalle regole, ma ciò che preoccupa la gente è se arriveremo mai ad esse.
Se una persona si innamora, a un certo punto questo avviene naturalmente. Quando uno si sposa, ed è realmente innamorato, è naturale desiderare di pulire la casa, di cucinare un buon pranzo, e così via. Il problema oggi è che le persone non stanno incontrando qualcuno per il quale abbia senso impegnarsi fino a questo punto. Un codice etico non è questo genere di incontro.
Concretamente, moltissime persone ispirandosi a papa Francesco oggi affermano che la Chiesa deve accompagnare il mondo LGBT, per esempio, o i fedeli divorziati risposati civilmente, e noi lo facciamo regolarmente. Ma quello che i critici dicono è: tutto questo non dovrebbe spingersi sino al punto di dire loro che la loro condotta deve cambiare?
Risponderò con un esempio. Troppo spesso pensiamo che l’alternativa sia di non dire niente o di essere ambigui. Io ho conosciuto un gruppo di coppie, famiglie, che coinvolge 18 o 20 famiglie; nessuna di queste coppie era sposata, per diverse ragioni, a volte anche comprensibili. Alcune famiglie appartenenti a Comunione e Liberazione hanno cominciato a trascorrere del tempo con loro, senza dire niente riguardo alla loro situazione “irregolare”. Col passare del tempo, si sono sposate tutte! Si sono trovate davanti persone che vivevano la vita di famiglia in un modo che non poteva lasciarle indifferenti. Alla fine, si sono sposate tutte non perché qualcuno ha spiegato loro le regole o la dottrina cristiana sul matrimonio, ma perché non volevano perdere quello che vedevano vivere da quelle altre famiglie.
Nel cristianesimo, la verità si è fatta carne. Il solo modo che abbiamo per comprendere fino in fondo questa verità fatta carne è incontrando e guardando un testimone. Tutta la liturgia del Natale riguarda la pienezza di Dio che si rende visibile. Se non si fosse reso visibile, non l’avremmo mai capito… questa è la grande sfida.
È inutile chiedere agli altri se essi sono tutto quello che dovrebbero essere. La vera questione è: noi siamo convinti testimoni della fede? Crediamo ancora nella bellezza disarmata della fede? Una persona innamorata sa cosa fare, e uno si innamora incontrando qualcuno. Questo è ciò che fa dell’esperienza di Gesù una “rivoluzione copernicana” per l’umanità.
di John L. Allen e Ines San Martin
(Continua)