Ci sono tragedie di cui tutti siamo responsabili. Esse non vengono innescate da singole azioni, mosse da individuali responsabilità, ma sorgono in seno ad un clima, ad una mentalità che, lentamente, si diffonde e diventa la normalità. Il bambino di sei anni, malato di leucemia e ricoverato all’ospedale di Monza per le complicanze provocate dal morbillo contratto dai suoi fratelli non vaccinati, morto ieri sera è lo specchio di un ciclo, il paradigma di un paese che ha deciso fin da troppo tempo di abbandonare la ragione per inseguire i sospetti, le paure, le isterie collettive che un tempo Manzoni stigmatizzava, ma che oggi sono diventate ordinaria amministrazione nell’epoca dei social e della loro amplificazione perversa di ogni parola, di ogni contenuto senza alcun filtro, senza alcuna possibilità che la verità — la verità che sta dentro le cose e che esiste — si faccia strada e possa trovare piena espressione. 



La follia della faida anti-vaccini, le polemiche di tanti sedicenti esperti, il continuo alimentarsi di fazioni e di schieramenti ha portato tutti, anche coloro che come il sottoscritto hanno fino ad oggi preferito l’arma dell’indifferenza, a pesantissime responsabilità. Non i genitori, non il personale sanitario, non la famiglia, ma tutta la collettività — quella comunità che a dispetto di tutto ancora siamo come Nazione — ha l’onere in questo momento di fermarsi, di tacere, di accollarsi un supplemento di riflessione su se stessa e su ciò che ha coltivato giorno dopo giorno, la sfiducia come l’unico valore unanimemente riconosciuto nella società. Sfiducia verso la classe politica, sfiducia verso il prossimo, sfiducia verso la scienza, sfiducia verso i singoli, ma — soprattutto — sfiducia verso una ragione che ci ha resi liberi, che ha fondato la nostra civiltà e di cui il sonno, oggi mai come prima, genera mostri. 



La sfiducia è, per un macabro gioco del destino, il vaccino che ci impedisce di guarire dalla malattia che ha ingoiato da più di trent’anni questa nostra terra, la malattia del malaffare, del ladrocinio legalizzato, della corruzione. Un cuore corrotto è un cuore che ha deciso di non percorrere la strada che il Mistero di Dio pone davanti a ciascun uomo, un cuore corrotto è un cuore che ha deciso di intraprendere una scorciatoia. Oggi, nel bel mezzo di questa scorciatoia, con forze politiche e culturali che incrementano dissennatamente i mostri che abitano le profondità di ciascuno di noi, troviamo il corpo di un bambino, di un martire del nostro tempo sacrificato sull’altare di una fede cieca e irrazionale, immolato per permettere una libertà senza confini e senza vincoli, morto per la pavidità che quest’ora della storia nutre nel non saper dire di “no” a quanto annichilisce e ferisce il tessuto collettivo e la nostra casa comune. 



Siamo malati. Affetti da una patologia che fin troppo è stata lasciata avanzare senza osare porre rimedio, senza proferire parole chiare e incontrovertibili. Siamo malati perché ci crediamo ricchi, perché ci sentiamo furbi, perché abbiamo fatto della diffidenza lo stigma della nostra identità. La storia, le circostanze, la stessa morte, ci mostrano tutta la nostra povertà e il nostro bisogno, semplice e così sempre pervicacemente negato, di essere guariti. La cura c’è. Essa non passa per un nuovo umanesimo fatto di simposi e di convegni, non passa per manifestazioni o argute analisi, non passa neppure per articoli come questo. La cura è la resa. Arrenderci alla realtà, arrenderci a quello che c’è. Ripartire. Ricominciare ad imparare e riconnettere la nostra ragione alla nostra esperienza. Che dal Cielo l’Angelo di quel bimbo protegga il nostro paese, faccia perire il nostro orgoglio e permetta alla luce di rientrare. Dalle nostre ferite fino al nostro cuore che in quest’ora, sommessamente, piange sconfitto.