Due persone morte. La prima uccisa in maniera feroce, accoltellata alla gola. La seconda per strangolamento, per evitare il rimorso di avere tolto la vita alla prima. La drammatica vicenda di cronaca è l’uccisione di una dottoressa del day hospital oncologico dell’ospedale di Sant’Omero, in provincia di Teramo, al confine con le Marche.
Ester Pasqualoni, 53 anni, aveva da poco terminato il servizio in ospedale per tornare a casa quando le è stato teso l’agguato mortale. Ad aspettarla, con in mano la roncola, il suo assassino. Un delitto premeditato, compiuto con freddezza. Quattro colpi con un’arma da taglio, alla gola e alla nuca, per uccidere chi per mestiere e con passione lottava per salvare altre vite. Nessuno ha potuto aiutare il medico, che prima di finire a terra, in una pozza di sangue, ha chiesto aiuto. Le sue urla hanno richiamato l’attenzione di alcune persone, ma nemmeno l’intervento immediato da parte del medico del pronto soccorso ha potuto salvarle la vita.
Il suo assassino si è dato alla fuga, su un’auto bianca. Gioco facile per i carabinieri risalire a lui, Enrico Di Luca, 69 anni, quando hanno accertato che la dottoressa aveva presentato due denunce per molestie in un recente passato. Ma quando i militari si sono presentati in un’abitazione di proprietà dell’uomo, in un paesino della costa teramana, lo hanno trovato senza vita, strangolato alletto con una fascetta autostringente.
La vittima e il suo carnefice, dalle prime ricostruzioni investigative, si conoscevano da una decina d’anni. Quando il padre dell’uomo, malato di tumore, era stato curato nel day hospital dell’ospedale di Sant’Omero. A gennaio 2014 la dottoressa aveva segnalato di aver cominciato a ricevere messaggi insistenti. In alcune occasioni aveva trovato Di Luca sotto casa e in altri posti che frequentava. Nessuna minaccia ma attenzioni insistenti e continue.
Fin qui la cronaca, scarna e inquietante. Due vite finite in maniera violenta per colpa della stessa mano. Il dramma di due famiglie, la disperazione di amici e di pazienti della donna, che sapeva avere parole di conforto per quei malati a cui erano stati diagnosticati mali incurabili. In tanti a piangerla, a ricordarla. Piergiorgio Casaccia, il medico del pronto soccorso, l’ha vista morire tra le sue braccia, con il volto insanguinato, devastato dalle ferite tanto da renderla irriconoscibile. Un volto in cui vedeva gli occhi, ma non aveva riconosciuto da subito la collega, l’amica. Un motivo ancora più forte per soffermarsi su un fatto che ha così improvvisamente invaso anche la sua, di vita. “Non ho provato disperazione o rabbia — ha raccontato il dottor Casaccia al sussidiario —, ero vuoto. Dopo quanto era accaduto sono andato nella cappellina dell’ospedale, ma non riuscivo neanche a pregare. A un certo punto c’era la sequenza dello Spirito Santo, quella che recita ‘consolatore dell’anima… dolcissimo sollievo’. Ho chiesto quindi ‘Mostrami che ci sei, fammi vedere che hai da dirmi, come mi puoi consolare per questa afflizione'”.
La preghiera come compagnia in un momento in cui tutto sembra vuoto e senza senso. “Vicino all’ambone c’era il libro delle letture — ha continuato il dottor Casaccia — ho aperto a caso e mi è capitata una pagina dei Giudici (6, 13-24) . Il Signore, quando ti parla, ti parla bene. Le domande che leggevo erano le mie domande. Signore perché è successo questo, dove sei? E Lui risponde: ‘non temere, io sono sempre con te. Ho visto l’angelo del Signore faccia a faccia. La pace sia con te, non temere, non morirai’. Il Signore mi ha riconfermato la sua presenza per me”. Ma quello che è successo è tragico. “Sì, umanamente fa male — ha replicato il medico del Pronto soccorso — perché umanamente io ho visto gli occhi della morte nei miei occhi. Non avevo neanche capito che fosse Ester all’inizio, l’ho capito dopo. Io con la morte ho un rapporto quotidiano per il lavoro che faccio. Anche gli altri, amici e colleghi, mi hanno fatto capire che non era un caso che ci fossi proprio io, che lei avesse guardato i miei occhi. Gli occhi di uno che sa che la vita riesce ad andare anche oltre, che sa che c’è qualcosa oltre la vita. Non è stato un caso che fosse stato il mio sguardo a incrociare il suo. Uno sguardo di preghiera e di affidamento a qualcun altro. Una vita che non è finita in quello sguardo, ma c’è uno sguardo dall’alto che ci ricomprende tutti”.
Una brutta storia di morte e di morti. Ma una testimonianza che fa riflettere, capace di aprire ulteriori sguardi e non rimanere fermi a guardare l’ennesima storia di femminicidio solo sotto lo sguardo illuminato da riflettori mediatici e solite denunce di violenze. Siano esse di uomini contro donne o uomini contro se stessi.