Un secco no alla vita: non c’è ragione di tenere in vita artificialmente il piccolo Charlie Gard, 10 mesi, affetto da una rara malattia del mitocondrio. E’ contro ciò che i giudici inglesi avevano definito il suo “best interest”, il suo interesse, l’interesse ad una vita dignitosa. Quella dignità che altri, non lui, e nemmeno i suoi genitori hanno stabilito. Ai giudici di Londra e di Strasburgo Connie Yates e Chris Gard avevano chiesto solo libertà: libertà di tentare tutto il possibile. Permesso negato. Ieri la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato ragione alla Corte suprema inglese, la quale si era espressa nello stesso senso dei medici del Great Ormond Street Hospital: il bambino soffre, si sospendano le cure, ovvero si spenga la ventilazione artificiale. Secondo Alberto Gambino, presidente dell’Associazione Scienza e Vita, si tratta di un caso “che applica formalmente il principio del divieto di accanimento terapeutico e lo fa in modo atomistico, senza un’adeguata valutazione di tutte le circostanze del caso”. Non solo. “Prefigura esattamente ciò che avverrà anche in Italia con l’applicazione della legge sul biotestamento”.
Professore, come ha accolto la decisione della Cedu?
Con dolore. Sapere che una vita innocente sta per spegnersi e per decisione di una Corte non lascia indifferenti. La Cedu sostiene che il bambino soffra, su questo in realtà molti esperti dicono non esserci evidenze scientifiche. E’ un punto rilevante, direi decisivo. In assenza di certezza di sofferenza, il principio di precauzione dovrebbe spingere per la tutela della vita, non per la sua interruzione.
Secondo lei quello della famiglia di Charlie è accanimento terapeutico?
Non è sostenibile, in quanto non si tratta di un’ostinazione fine a se stessa, ma del mantenimento di un presidio (un respiratore artificiale) con il fine di tenere in vita il proprio piccolo per poi tentare un intervento sperimentale Oltreoceano.
Questo cosa implica?
Implica che in casi come questo, certamente difficilissimi, non possa assegnarsi la parola definitiva ad un solo soggetto, nel caso il medico, ma che ogni decisione debba trovare la convergenza tra sanitari e familiari, sempre nell’orizzonte della tutela della salute e della vita del paziente. E solo ove questa tutela non sia più possibile, allora si dovrà desistere. In questo caso, però, sembrano residuare speranze e, dunque, non vi è un obbligo di desistenza.
La famiglia di Charlie ha raccolto fondi privati per tentare una cura negli Usa e dare una chance di vita in più al bambino. La sentenza di Londra però è apparsa pregiudizialmente contraria a questo diritto. Cosa può dire in proposito?
La sentenza non ripone alcuna speranza nella terapia sperimentale cui si sottoporrebbe il bambino negli Usa. Ed è proprio qui che emerge una durezza e un’astrazione della decisione: il bambino attualmente vive, seppur attaccato ad un respiratore; i genitori, con il sostegno di tante persone generose, hanno trovato i mezzi per andare negli Usa. Si tratta di una chance, forse piccola, ma comunque di una chance di vita: perché precluderla così nettamente? I giudici dicono che il bambino soffre, ma allora si sarebbero potuti dettare i tempi, le modalità, una necessaria celerità dell’intervento e non trascinare la decisione per mesi.
La Cedu si è espressa contro il diritto alla vita?
La Cedu in questo caso ritiene di essersi espressa a favore del diritto a non soffrire, diritto da attuarsi anche con l’interruzione della vita. Nessuno vuol fare soffrire i bambini innocenti, tantomeno i genitori di Charlie, che stanno piuttosto reclamando il diritto a curarlo.
Il giudice dell’alta Corte inglese Nicholas Francis ha detto che Charlie ha “diritto a morire con dignità”. Come commenta questa dichiarazione?
La dignità, quando è sganciata dalla salvaguardia della vita, diventa sempre più un criterio soggettivo, opinabile. Preferirei che si cominciasse a parlare piuttosto del morire con umanità, per rimarcare la necessità che ogni vita umana fino alla fine sia accudita con dedizione e attenzione del personale sanitario e, auspicabilmente, in una relazione di vicinanza con le persone più care.
Cosa cambia dopo la sentenza sul caso Charlie Gard?
E’ un caso che applica formalmente il principio del divieto di accanimento terapeutico e lo fa in modo atomistico, senza un’adeguata valutazione di tutte le circostanze del caso. Facciamo attenzione: è esattamente ciò che avverrà anche in Italia con l’applicazione della legge sul biotestamento. Nell’attuale versione che sta per essere approvata definitivamente dal Senato si è scritto infatti che nel caso di paziente con “prognosi infausta a breve termine” il medico “deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure”. Ma ostinazione e irragionevolezza sono parametri che, in realtà, si possono giudicare solo dopo un tentativo di cura, non prima: ritenere, invece, che il medico, in queste situazioni, debba sempre astenersi può essere l’anticamera dell’abbandono terapeutico, per di più in un quadro strutturale di una sanità attanagliata dall’esigenza del risparmio dei costi e, dunque, talvolta incline a fare ciniche scelte efficientiste.
(Federico Ferraù)