In questi anni si fa un gran discutere della necessità di affermare l’autodeterminazione del paziente nel decidere se sottoporsi o no a determinati trattamenti sanitari quale principio assoluto. In nome di questo principio si sono avute sentenze caratterizzate da evidenti forzature, quando non addirittura dalla creazione ad hoc di nuove regole di diritto e si intende introdurre il testamento biologico (e forse surrettiziamente anche l’eutanasia) nel nostro Paese. Bene, da oggi conviene scordarsi di poter essere i soli a decidere se iniziare o continuare determinate cure oppure no, perché qualcun altro potrebbe scegliere al posto nostro di farci vivere o (molto più probabilmente) di lasciarci morire: le strutture sanitarie e le Corti nazionali ed europee. Anche se si tratta di quegli stessi giudici europei che dovrebbero tutelare i diritti delle persone. 



Nella giornata di ieri la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha infatti sancito che il piccolo Charlie Gard può essere lasciato morire, sebbene i suoi genitori abbiano lottato disperatamente perché possa vivere. I fatti sono noti. Charlie, un bimbo inglese di dieci mesi, è affetto da una rara malattia mitocondriale e deve essere sottoposto a ventilazione artificiale per rimanere in vita. L’ospedale presso cui Charlie è in cura si è rivolto all’autorità giudiziaria inglese per ottenere l’autorizzazione a interrompere i trattamenti sanitari e a lasciar morire il povero bimbo. 



Non aveva però fatto i conti con i genitori del piccolo che, dopo aver tentato inutilmente in tutti i gradi di giudizio previsti dall’ordinamento inglese di ottenere una decisione che impedisse questo epilogo, hanno deciso di adire la Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima tuttavia ha dichiarato inammissibile il loro ricorso e ha confermato la decisione della Corte Suprema britannica. 

In nome di cosa? Del principio del “migliore interesse”, del “best interest” di Charlie. Poco importa che i genitori avessero chiesto di poter sottoporre il piccolo ad una cura sperimentale negli Stati Uniti, identificando in questa soluzione il “best interest” di Charlie, ed avessero raccolto la somma all’uopo necessaria. A detta della Cedu, la condizione di Charlie è per lui motivo di sofferenza ed al contempo egli non potrebbe trarre giovamento dalla cura sperimentale. Dunque hanno deciso che il suo “migliore interesse” sia morire. 



Non è forse inutile sottolineare che, secondo la giurisprudenza anche della Corte di Cassazione italiana, è necessario il consenso del paziente perfino per astenersi dalla pratica dell’accanimento terapeutico, definito dal Comitato nazionale italiano di bioetica quale “trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”. Peraltro il concetto di accanimento terapeutico è estraneo alla cultura anglosassone, che suole invece distinguere tra trattamenti utili e futili. Come si potrebbe sostenere che la ventilazione artificiale che ha finora tenuto in vita Charlie sia inefficace, causa di ulteriori sofferenze, sproporzionata, futile? Ma soprattutto, come si può accettare che un giudice possa decidere che la vita, anche la nostra vita, può essere peggiore della morte e che in alcuni casi morire possa essere il “best interest” di una persona, in barba a qualsiasi convincimento dell’interessato e delle persone che gli vogliono bene?