Qualche tempo fa un importante quotidiano italiano ha chiesto ai suoi editorialisti di rinunciare completamente al compenso, almeno per un certo periodo: per contribuire all’avvio di un’impegnativa fase di risanamento dell’azienda editoriale. Quasi tutti hanno accettato: una sola firma, pare, ha deciso di troncare la collaborazione. Certamente ha contato il fair play solidale di opinionisti tanto prestigiosi quanto avveduti: non si lascia una testata (tuttora prestigiosa) magari dopo anni di collaborazione, per qualche centinaio di euro a column (i tempi in cui gli euro di compenso erano migliaia sono ormai lontani). L’occasione è stata comunque utile per chiarire a tutti – editori, direttori ed editorialisti – che l’opportunità di pubblicare un proprio articolo in evidenza su un format giornalistico forte e visibile contiene valore in sé.
La gratuità della pubblicazione di un contenuto giornalistico editoriale è divenuto ormai uno standard ragionevole: è alla fine la piattaforma giornalistica che “offre valore” a un contenuto e al suo autore piuttosto che il contrario. Quale editorialista – in Italia – può affermare di poter attrarre lettori netti con la sua firma? In ogni caso non sono molti quelli che con certezza “aggiungono valore” a una testata piuttosto che a un’altra. Invece qualsiasi firma in risalto su un format – old o new – con una sua base di lettori (contatti) e un suo profilo editoriale-culturale uscirà immediatamente dall’anonimato oceanico dei blog e dei social media. E il reddito?
Un altro importante quotidiano italiano ha iniziato a offrire ai suoi lettori tour guidati dalle sue firme in grandi città del mondo. E’ un altro discorso e il discorso sarebbe lungo e non solo da addetti ai lavori nel gran dibattito su fake e post-verità. Su molti media sono infatti in aumento contenuti e collaborazioni non pagati e neppure gratuiti ma addirittura “paganti”, con tutte le problematiche del caso sul terreno della trasparenza giornalistica e quindi di intera “democrazia dell’informazione”.
Ma il mercato ha regole ferree e così il New York Times ha annunciato l’altroieri la fuoriuscita incentivata di 100 giornalisti senior, che saranno progressivamente rimpiazzati da altrettanti junior. E questi ultimi, verosimilmente, saranno inseriti con stage e bassi salari d’ingresso. Avranno probabilità basse di restare al NYT a lungo termine raggiungendo i livelli retributivi dei cinquantenni in esubero oggi. Ma c’è da credere che – fino a che la Grey Lady di Manhattan sarà più autorevole e seguita di Buzzfeed o Huffington Post – ci sarà la fila per fare uno stage: o per restarci da junior flessibili a mille dollari al mese, naturalmente insufficienti per vivere sulla Quinta Strada: ma sempre preziosi o ancora necessari a chiunque abbia studiato giornalismo alla vicina Columbia University e voglia farsi strada in un mestiere sempre meno definibile, in un settore sempre più magmatico.
Quella della laurea alla Columbia e dello stage al NYT non è ovviamente l’unica strada: Mark Zuckerberg non è riuscito a laurearsi laureato ad Harvard eppure oggi è il più grande e ricco editore del mondo. Facebook edita anche il “giornale personale” di Cristiano Ronaldo: un gratuito che piace a 121 milioni di lettori sul pianeta, un maxi-veicolo pubblicitario come GnamGnam Style su Youtube. Le vie e le declinazioni del giornalismo e dei suoi business restano infinite: anche se sono forse finite quelle dei “giornalisti tuttofare”, dipendenti a tempo indeterminato a 5mila dollari/euro al mese o dei professori universitari pagati 500 o mille euro per 4mila battute in prima sulle elezioni americane. Primi e secondi ricominciano letteralmente da zero: e molti ci resteranno.
E così, arriviamo alla notizia di ieri. Sono pochi o tanti 600 euro al mese per un giovane ingegnere civile italiano, diciamo un neolaureato? Sono pochi o tanti – nel 2017 – per uno stage d’ingresso con alte probabilità di conferma successiva in apprendistato e rapporto a tempo indeterminato, percorso disegnato dal nuovo Jobs Act? Sono pochi o tanti per imparare un mestiere in un gruppo industriale del Nord Italia specializzato nella progettazione di sale operatorie mobili? Sono pochi o tanti per l’opportunità di misurarsi professionalmente anche fuori Italia? Chi “sfrutta” chi, chi “offre valore” a chi fra il gruppo Dimensione e i giovani ingegneri che liberamente decidono di rispondere a un annuncio pubblicato sul sito della società? In quale post-mondo vivono quelli che accusano sui social media il gruppo Dimensione di essere socialmente scorretto perché offre un’opportunità professionale qualificata in un Paese con il 38 per cento di disoccupazione giovanile?
Ai lettori la risposta.