Pell, il cardinale nominato direttamente dal Papa prefetto degli Affari economici con il compito di portare trasparenza nelle finanze vaticane, è stato incriminato in Australia per gravissimi reati sessuali. Il pontefice ha disposto il congedo del cardinale da tutti i suoi incarichi: in questo modo il porporato è libero di tornare in Australia per difendersi da accuse che appaiono tremende. Si tratterebbe infatti di pedofilia e di stupro su minori. I fatti sarebbero avvenuti in due tempi: quando era sacerdote a Ballarat (1976-1980) e poi da arcivescovo a Melbourne (1996-2001). Le accuse provengono da più querelanti e riguardano non solo atti compiuti direttamente: ci sarebbe anche la grave responsabilità di aver coperto i comportamenti di alcuni preti pedofili della sua diocesi di Melbourne, dove è stato prima vicario episcopale e poi arcivescovo metropolita.
La vicenda riguarda il più alto esponente ecclesiastico mai finito sotto accusa per abusi sessuali e, indirettamente, anche Papa Francesco. Parecchi giornalisti infatti evidenziano come avessero ragione coloro che avevano messo in discussione la bontà della scelta di Pell da parte del Papa: ai tempi della nomina infatti il presule australiano era già stato coinvolto da molte vittime di pedofilia all’interno del processo “Royal Commission”.
Oggi, quindi, una persona che guarda l’agire del pontefice è chiamata a rispondere a due giudizi interiori: ha fatto bene il Papa a congedare Pell? Ha fatto male a nominarlo suo consigliere direttissimo per il progetto di revisione della Curia quando già sapeva di questa vicenda non risolta?
È facile rispondere affermativamente alla prima domanda. In pratica il Papa ha detto a Pell di rientrare in Australia per consentire che il processo nel quale è coinvolto giunga a conclusione il prima possibile: e ciò nel pieno rispetto delle leggi civili. Si tenga conto che in altre circostanze il cardinale aveva risposto alle domande dei giudici in videoconferenza adducendo motivazioni di salute. Ora invece tornerà in patria “per difendersi strenuamente da accuse” che respinge assolutamente.
La seconda risposta è più complicata. In primo luogo non è facile sapere esattamente cosa sapesse il Papa il 13 aprile 2013: è la data della prima nomina di Pell come proprio consigliere e Bergoglio è pontefice da un mese. I giornalisti che accusano il vescovo di Roma di aver compiuto una scelta sbagliata sono certi di qualcosa di cui in realtà non possono essere essi stessi del tutto certi.
In secondo luogo c’è a mio parere la questione più seria: che non riguarda solo la Chiesa ma tutta la nostra società civile. Il principio fondamentale del diritto romano “in dubio pro reo” vale ancora nella società attuale o no? Pare spesso che non sia così, se un avviso di garanzia diventa una condanna o un’intercettazione telefonica che dovrebbe rimanere segreta diventa pubblica: ma dobbiamo decidere una volta per tutte se questo modo di giudicare e di vivere è civile o no. Il principio che ho citato è del diritto romano, non dei barbari: su di esso si è costruito un impero e una civiltà che ha segnato la storia dell’uomo. Tutti hanno diritto a un giusto processo e l’imputato finché non è condannato è innocente. Chiunque di noi sarebbe inorridito al pensiero che qualsiasi accusa infamante gli venga rivolta, quell’accusa sia per ciò stessa giudizio definitivo: eppure è quello che sta accadendo ormai da troppi anni. Ebbene il Papa — che non sappiamo quanto e che cosa sapesse — si è comportato secondo il principio del “in dubio pro reo”. Ha detto: Pell, ora collabora al meglio con la giustizia perché finché non sei giudicato, per me sei innocente. Ma, visto che ti accusano, sospendo il giudizio e ti chiedo di collaborare con la giustizia del tuo paese perché sia fatta verità. Io, da cittadino qualsiasi, dico che il Papa ha fatto bene.