La Cassazione ha riconosciuto a Salvatore Riina, detto Totò, il diritto a morire dignitosamente e ha ammonito il Tribunale di sorveglianza di Bologna che, avendo respinto le precedenti istanze del capo di Cosa nostra, ha commesso diversi errori. La sentenza della Suprema corte sta facendo a dir poco discutere, ma merita più di una semplice lettura, soprattutto di alcuni passaggi. La sentenza della Cassazione annulla con rinvio l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna, quindi non è stato deciso un differimento della pena: la decisione finale non è stata ancora presa. La Suprema corte ha analizzato le motivazioni, definendole in alcuni punti «carenti» e «contraddittorie».
Per la Cassazione il fatto che sia costantemente monitorato a causa della sua patologia cardiaca non giustifica il rifiuto del differimento della pena, né dimostra la compatibilità delle condizioni di salute di Totò Riina con il regime carcerario. La motivazione del Tribunale di sorveglianza di Bologna viene definita «parziale», perché non ha considerato lo stato di salute generale del ricorrente, mentre bisogna «considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». Per la Cassazione mantenere una persona in carcere nonostante il decadimento fisico può essere contrario al senso di umanità e dignità, prescritti dalla Costituzione, e potrebbe rivelarsi una detenzione inumana, vietata anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza è contraddittoria, secondo la Cassazione, perché da un lato afferma la compatibilità dello stato di detenzione di Riina con il regime carcerario, ma dall’altro «evidenzia espressamente le deficienze strutturali della Casa di reclusione di Parma», dove Riina si trova, affermando che sono però irrilevanti.
«Lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare della persona non deve limitarsi alla patologia implicante un pericolo di vita per la persona», scrivono i magistrati, secondo cui bisogna fare attenzione anche «a ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria».
L’87enne Riina, immobile dalla vita in giù, ha due tumori, soffre di Parkinson e vive col respiratore, condizioni che la Cassazione considera al di sotto di quella soglia di dignità. E si interroga sulla pericolosità del boss mafioso, «in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute». L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna è stata, dunque, annullata perché aveva omesso nelle motivazioni del diniego alle istanze di Riina Inoltre, non ha verificato né motivato se lo stato di detenzione carceraria comporta una sofferenza e un’afflizione di un’intensità tale da andare oltre la «legittima esecuzione di una pena». Gli ermellini non comprendono in che modo si sia ritenuto compatibile il mantenimento in carcere di un uomo affetto da gravi patologie, con una situazione neurologica compromessa, che non riesce a stare seduto ed è esposto «in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili». Per la Cassazione bisogna assicurare ad ogni detenuto un diritto di morire dignitosamente, quindi il Tribunale di sorveglianza di Bologna deve espressamente motivare le ragioni per cui ha rigettato l’istanza di differimento dell’esecuzione della pena e di detenzione domiciliare.
Inoltre, il provvedimento non chiarisce come debba considerarsi “attuale” la pericolosità di Riina in considerazione delle condizioni di salute. Le eccezionali condizioni di pericolosità vanno basate su precisi argomenti di fatto, rapportati alle attuali capacità del soggetto di compiere azioni idonee a integrare il pericolo di recidiva, nonostante lo stato in cui versa. I magistrati hanno anche citato gli articoli 27 della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità») e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo («Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene né a trattamenti inumani o degradanti»).