Un malato di cancro in fase avanzata, cui restano pochi mesi di vita, è riuscito a conquistare la vetta dell’Everest lo scorso lunedì 5 giugno. E’ Ian Toothill, personal trainer di 47 anni, originario di Sheffield in Inghilterra. L’uomo pensa di essere il primo malato di cancro a scalare la montagna più alta del mondo e ha utilizzato questa occasione anche per raccogliere fondi da destinare a un’associazione che si occupa dei malati di tumore. 



Nel 2015 gli era stato diagnosticato una neoplasia all’intestino, che sembrava debellato all’inizio del 2016; pochi mesi dopo però il male si è riattivato, e i medici gli hanno detto che gli rimanevano pochi mesi di vita. A febbraio scorso, in un’intervista alla Bbc, aveva annunciato “di essere determinato a dimostrare che qualsiasi cosa è possibile” e lo scorso 16 maggio ha raggiunto la cima del Colle Nord (la sella tra il Changtse e l’Everest) e poi, il 5 giugno, quella dell’Everest.



Dal 1953, quando Hillary e Tenzing effettuarono la prima ascensione, l’Everest è stato scalato da circa 8mila persone, di cui 600 solo nello scorso anno. Molte cime facili delle Alpi non raggiungono neanche lontanamente questi numeri; è quindi ancora un’impresa scalare l’Everest? L’argomento è molto dibattuto nel mondo alpinistico, sta di fatto che qualsiasi persona in buona salute che abbia a disposizione circa 40/50mila euro può farsi accompagnare sul tetto del mondo. A parte alcuni exploit velocistici, la salita della montagna è ormai una non notizia.

Non so nulla di Ian, e le notizie riportate dalle agenzie sono troppo superficiali e sintetiche per comprendere bene perché e come lo ha fatto. Ma la questione che si pone in questo caso credo non sia la salita in quanto tale, ma la lotta contro una malattia devastante e non curabile. La vera salita di Ian non è stato l’Everest, ma l’affrontare, vivendo la sua malattia, una cosa comunque per lui difficile ma bellissima, sapendo bene ciò che lo attende.



Da un anno dirigo una struttura sanitaria contenente un Hospice e ogni giorno incontro persone che stanno affrontando i loro ultimi giorni. Quello che mi stupisce sempre è la vitalità che alcuni di loro mostrano e la serenità con cui vivono il loro ultimo tempo, tanto che all’inizio dubitavo fossero davvero malati terminali. Penso che Ian non abbia voluto dimostrare nulla, ma vivere con grande intensità un desiderio che aveva cullato per chissà quanto tempo. Nel suo caso non poteva certo bastare la capacità fisica, ammesso ci fosse. Il desiderare di vivere fino in fondo un momento di profonda bellezza dona una volontà di procedere che sovrasta ogni debolezza fisica e sostiene anche di fronte al dolore. E’ un cammino non facile, certo, ma che dà una grande serenità.

Non stiamo quindi parlando di alpinismo, il finto alpinismo delle spedizioni commerciali e della cima a tutti i costi, ma di un’esperienza profondamente umana che potrà servire di esempio e stimolo per tante persone che stanno vivendo un momento così difficile.

Non ho altre parole che riportare una sua dichiarazione al Guardian: “Per quelli che perdono la loro battaglia contro il cancro, e gli amici, e i famigliari a cui non resta che raccogliere i pezzi. Io arrampico per voi. Per chi non ha più la forza di affrontare il giorno e lotta con accanimento durante le notti. Restate forti e sappiate che la battaglia non è finita, c’è sempre una strada”.

Credo che Ian abbia camminato e salito anche per me.