1. Ieri, la dottoressa Letizia Zuffellato, con la sua lettera al sussidiario, ci ha offerto una preziosa testimonianza dalla “linea del fronte” — il Great Ormond Street Hospital di Londra — dove è in corso una drammatica vicenda umana, quella del bambino Charlie Gard affetto da una rarissima malattia genetica la cui cura intensiva pediatrica sta per venire interrotta a seguito delle decisioni dei medici e della direzione dell’ospedale, confermate in sede giudiziaria nonostante l’opposizione dei genitori che chiedevano per lui, quale ultima possibilità umana, di poter accedere ad una terapia sperimentale predisposta in un centro di ricerca clinica degli Stati Uniti. Una testimonianza ancor più robusta e convincente in quanto proveniente da un ospedale britannico di lunga tradizione che noi — genetisti clinici che ci occupiamo di malattie ereditarie rare — ben conosciamo e apprezziamo per il rigore della ricerca biomedica dei suoi studiosi, l’altissima professionalità e dedizione dei medici e degli infermieri, e l’attenzione alla dimensione personale della sofferenza e della medicina, in particolare quella neonatale e pediatrica. Ma anche per la passione intelligente e lo sguardo accogliente verso i malati e le loro famiglie di una giovane laureata in medicina che le hanno fatto lasciare il suo Paese e i propri cari ed amici per andare a specializzarsi nelle più avanzate cure presso il prestigioso nosocomio londinese.
Come non fare nostra l’esclamazione verissima e commossa di Letizia che “la vita di Charlie, dei suoi genitori, dei medici, dei giudici, la nostra vita, dipende da un Altro, che la vita ce l’ha data e ce la dà ogni istante, ma che anche se la riprende, a volte in modi drammatici e misteriosi, come nel caso di Charlie e di tutti quei bambini che sono in quella rianimazione con lui”? Come non ammettere con sincerità che “accettare che la propria vita e la vita delle persone a cui si vuole bene non è nelle nostre mani è drammatico, faticoso e doloroso”?
Mentre faccio mie e ripropongo ai lettori queste lucide e incarnate parole, testimonianza di una professionalità umana e di un temperamento cristiano deciso, non posso esimermi dall’abbracciare la prospettiva della categoria suprema della ragione — la possibilità — che la libera dalla prigione del calcolo statistico, della misura della realtà secondo dei parametri pre-determinati e inflessibili, e dalle ipotesi cieche figlie di inferenze dal respiro troppo corto rispetto alla vita, per spalancare gli orizzonti della ragione all’imprevedibile e all’imprevisto: che il Mistero di cui tutto è fatto possa manifestare il suo Volto buono venendo incontro alla vita ferita, ammalata, sofferente di una piccola sua creatura servendosi dell’ingegno dei ricercatori, della razionale innovazione terapeutica dei medici, delle risorse materiali e umane delle biotecnologie cliniche. Una possibilità che né genitori né medici possono pretendere che diventi realtà — la pretesa è negatrice della possibilità — ma che essi sono chiamati a lasciare aperta, nella forma di un uso ragionevole della ragione scientifica e clinica.
I miracoli non sono solo gli accadimenti che violano palesemente le leggi della natura — come quello di padre Malachia nel romanzo di Bruce Marshall — manifestando in modo eclatante che Dio, che ha dettato le “regole del mondo”, può agire nel mondo e nell’uomo scavalcando i limiti fisici della realtà. I miracoli non sono solo quelli che i fedeli riconoscono essere accaduti per intercessione della Madonna e dei Santi, e che sono fisicamente, biologicamente e clinicamente inspiegabili. Vi sono “miracoli della scienza” e “prodigi della medicina” — risultati imprevedibili e imprevisti della ricerca e di nuovi protocolli terapeutici, meticolosamente predisposti da numerose équipe di specialisti attraverso lunghi anni di studi e tentativi preclinici e clinici, oppure sgorgati da ancor più lunghi anni di esperienza in laboratorio e in corsia di uno o pochi medici — che il pensiero agnostico legge riduttivamente come successi eccezionali della scienza e delle tecnologie biomediche, ma che agli occhi della fede appaiono come il frutto di un’intelligenza della realtà fisiologica e patologica, di un ingegno sperimentale e di una un’intuizione clinica straordinari di cui un Altro si è servito per prendersi cura della malattia di un figlio o di una figlia, per rendere la loro vita meno gravosa, o anche solo per concedere benevolmente qualche mese o qualche anno in più di vita e di amore.
La possibilità non è solo categoria che spalanca il senso religioso dell’uomo e lo prepara all’incontro con il Mistero che si manifesta nella sua vita, ma è anche il motore più potente dell’intelligenza e dell’azione del ricercatore e del medico, rendendolo libero di seguire ragionevolmente percorsi investigativi e clinici innovativi che lasciano sempre aperta la strada al dispiegarsi della Mente e dell’Opera di un Altro attraverso la nostra mente e la nostra opera, le nostre ricerche e le nostre terapie, ultimamente arrendendoci solo a Lui e non al nostro limite.
2. Per quanto siamo a conoscenza, il piccolo Charlie è stato colpito da una forma grave di sindrome da deplezione del Dna mitocondriale (MDS) che viene classificata come MDS encefalomiopatica, in quanto colpisce in modo particolare il sistema nervoso centrale e le funzionalità neuromuscolari, respiratorie, gastrointestinali e renali, che risultano in vario grado compromesse. La causa è la presenza di una coppia di mutazioni disfunzionali identiche (omozigosi) o diverse (eterozigosi) del gene RRM2B del cromosoma numero 8. Si tratta di una forma di malattia genetica germinale estremamente rara: sono stati sinora riportati solamente 18 casi di bambini con MDS encefalomiopatica dovuta a mutazioni di RRM2B, gli ultimi dei quali sono due fratelli israeliani, deceduti all’età di 10 e 12 settimane, descritti nella primavera di quest’anno sulla rivista Neuropediatrics.
Charlie potrebbe essere il diciannovesimo soggetto con questa sindrome diagnosticato nel mondo, con la particolarità di una sopravvivenza insolitamente lunga. Tutti i casi precedenti sono morti poco dopo il parto o comunque entro sei mesi (questo dato non è insignificante: è nota la variabilità clinica della manifestazione dei difetti nel gene RRM2B e il bambino inglese potrebbe rappresentare un caso particolarmente “resistente” o con una espressione fenotipica meno clinicamente penetrante, la qual cosa giustificherebbe un supplemento di tentativi terapeutici o, quanto meno, la non frettolosità nel sospendere la ventilazione meccanica ed altri supporti vitali).
Il gene RRM2B codifica per la subunità R2 dell’enzima ribonucleotide reduttasi, una proteina necessaria per la sintesi dei nucleosidi attivati, i “mattoni” con cui viene costruito il nostro Dna. In particolare, la ribonucleotide reduttasi serve per mantenere la riserva di questi “mattoni” all’interno degli organelli delle nostre cellule chiamati mitocondri, indispensabili per il processo di respirazione cellulare e la produzione della maggior parte dell’energia chimica necessaria al corpo umano. Un difetto in questo enzima — come quello presente nel bambino Charlie — porta ad una carente sintesi del Dna contenuto nei mitocondri e, di conseguenza, ad una ridotta efficienza nella funzionalità metabolica di questo organello citoplasmatico. Questo comporta un’alterazione nei livelli di alcuni metaboliti, in particolare dell’acido lattico (fenomeno della “acidosi lattica”) e di altri acidi organici e chetoni, i quali danneggiano alcuni tessuti, in particolare quello nervoso centrale e periferico e quello muscolare. Ne consegue una encefalopatia (che si può manifestare con episodi di convulsione ed altri segni e sintomi neurologici), ipotonia, insufficienza respiratoria, ritardo nello sviluppo, inadeguata nutrizione ed eventualmente altre patologie transitorie, ricorrenti o degenerative.
La terapia che i genitori di Charlie avevano chiesto di vedere applicata al proprio figlio, prima di arrendersi al destino di una morte causata dall’aggravamento del suo quadro clinico che presto o tardi sarebbe sopraggiunto e di cui erano consapevoli perché correttamente, tempestivamente e delicatamente informati dai medici del Great Ormond Street Hospital, non è una stravagante invenzione di uno pseudo-scienziato di provincia o di un medico comune improvvisatosi luminare della clinica pediatrica, ma appartiene ad un repertorio di approcci innovativi alla terapia di alcune malattie mitocondriali di origine genetica (difetti congeniti del metabolismo di questo organello delle nostre cellule) che è già in corso di sperimentazione da alcuni anni in diversi centri clinici e va sotto il nome di “trattamento con piccole molecole” (small-molecule treatment; cf. W.J.H. Koopman e altri autori, Mitochondrial disorders in children: toward development of small-molecule treatment strategies, EMBO Molecular Medicine 2016, 8: 311-327).
Di che cosa si tratta? Non è né una terapia cellulare (innesto di cellule staminali o pre-differenziate funzionali, in grado di sostituire quelle che presentano il difetto e ripristinare parzialmente o interamente la funzionalità del tessuto o dell’organo), né una terapia genica (intervento sul patrimonio genetico di alcune popolazioni di cellule in espansione del paziente per “correggere” il difetto genomico causa della malattia).
Questi due approcci, per quanto molto promettenti e forse un giorno risolutivi, sono ancora gravati da difficoltà procedurali e rischi per il paziente che, se già ne rendono problematica la sperimentazione su malati meno piccoli e in migliori condizioni cliniche, di certo avrebbero sconsigliato fortemente anche un solo tentativo sul piccolo Charlie, tentativo che sarebbe risultato clinicamente inappropriato ed eticamente inaccettabile (anche con l’improbabile assenso dei genitori, adeguatamente informati sui rischi). Nel caso in questione, ci troviamo invece di fronte alla somministrazione di precursori di metaboliti naturali — chiamati nucleosidi — ordinariamente presenti nelle cellule del corpo di ciascun individuo fin da prima della nascita e per tutta la vita, che sono però carenti nei mitocondri dei pazienti affetti dalla sindrome da deplezione del Dna mitocondriale che ha colpito il bambino britannico. L’idea — tutt’altro che bizzarra (sta alla base di altre terapie metaboliche già applicate con successo nel caso di differenti malattie ereditarie rare) — è quella di “scavalcare” (bypass) il blocco enzimatico creatosi nelle cellule dei malati facendovi arrivare dall’esterno il metabolita di cui esse hanno bisogno per funzionare correttamente. Per questa ragione, la terapia che era stata proposta per Charlie viene chiamata “terapia di bypass nucleosidico”.
La “terapia di bypass nucleosidico” non è certo una terapia ordinaria, convenzionale e supportata da definite evidenze obiettive di efficacia riscontrate clinicamente su un numero di pazienti che presentano una deplezione del Dna mitocondriale. Essa appartiene però ad una serie dei cosiddetti “trattamenti con piccole molecole” che seguono la strategia di bypass metabolico per le malattie genetiche mitocondriali, trattamenti già giunti in fase I, IIa, IIb o III della sperimentazione clinica, registrati come Clinical Trials presso i National Institutes of Health (NIH; Bethesda, Maryland, Usa) — l’equivalente, fatte le debite proporzioni, del nostro Istituto Superiore di Sanità —, e che hanno avuto l’approvazione di un Comitato scientifico ed etico (IRB). Di certo, la numerosità dei pazienti arruolati in questi studi è molto ridotta (una o poche decine al massimo), e non raggiunge i “grandi numeri” della statistica degli studi clinici su malati affetti da malattie più comuni: ma questo è un limite intrinseco (ed accettato dai ricercatori e dai revisori dei loro protocolli) legato alla condizione di “malattia rara” o “rarissima” di queste patologie.
I dubbi e i problemi da risolvere per lo sviluppo della terapia metabolica con piccole molecole restano, primo fra i quali la capacità di queste molecole di entrare efficientemente nei mitocondri passando attraverso la loro doppia membrana una volta che siano state incorporate dalle cellule dei pazienti. Ma non si tratta certo di una cura senza fondamento scientifico, biologicamente o clinicamente azzardata e rischiosa, attuata da incompetenti o malintenzionati, e neppure effettuata presso centri clinici privi di qualificazione ed autorizzazione. Non ci troviamo di fronte ad un nuovo “caso Stamina” o — andando più indietro nella storia del nostro Paese — a nuovi casi “Di Bella” (1998) o “Bonifacio” (1969). Infine — ma non meno rilevante — è la constatazione della scarsa tossicità delle molecole utilizzate per questo tipo di terapia sperimentale: esse non sono dei “farmaci di sintesi” (composti chimici dalla struttura e dalle proprietà differenti dalle molecole naturalmente presenti nel nostro corpo), ma dei metaboliti (o derivati di essi, che in essi si trasformano una volta entrati nel nostro corpo) ordinariamente presenti nelle cellule umane a qualunque età.
3. Ci possiamo ora chiedere quali ragioni abbiano indotto medici competenti, esperti e umanamente attenti quali quelli del Great Ormond Street Hospital a negare ai genitori di Charlie la possibilità di quest’ultimo tentativo terapeutico — straordinario e non clinicamente né eticamente obbligatorio, ma neppure medicalmente e moralmente indecente — prima di affidare il loro piccolo figlio nelle mani di un Altro.
Un prima risposta potrebbe risiedere nella considerazione che non si sono trovati di fronte ad una terapia validata, ad un “farmaco” di uso consolidato, clinicamente testato per il tipo di patologia presente nel bambino. E, dunque, hanno ritenuto che questo tentativo non fosse appropriato, almeno secondo i canoni della farmacologia clinica di uso prevalente. Ma esiste anche un altro impiego dei farmaci — straordinario e limitato a casi eccezionali, quali quello di malati affetti da forme inguaribili di tumori, malattie degenerative o sindromi rare — che viene chiamato “uso compassionevole” (in inglese: compassionate use, expanded access, o pre-approval access). Esso prevede la possibilità di impiegare un farmaco (di sintesi oppure naturale) che non ha ancora superato la fase clinica di sperimentazione, e non è ancora stato approvato per l’impiego ordinario in medicina, anche in pazienti che non possono essere regolarmente arruolati nel protocollo di sperimentazione di questo preparato a motivo delle condizioni cliniche in cui versano o del loro veloce aggravarsi, o perché non soddisfano tutti i requisiti per l’inclusione tra i soggetti eleggibili, oppure perché non hanno accesso alla struttura sanitaria dove si svolgerà la sperimentazione controllata. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration (Fda) ha emanato regole precise per questo “Programma di Accesso Allargato” (Eap) a farmaci non ancora in distribuzione e la cui sperimentazione controllata non è disponibile a tutti i potenziali beneficiari, e simili regole esistono anche in Europa. Secondo quanto affermato dalla dottoressa Vikki A. Stefans afferente a questa struttura, proprio la stessa “terapia di bypass nucleosidico” è stata recentemente richiesta all’autorità competente dall’Arkansas Children Hospital (Little Rock, Arkansas, Usa) per uso compassionevole nel caso di due pazienti affetti da deplezione del Dna mitocondriale.
Una seconda risposta potrebbe essere legata ad una valutazione di un troppo elevato rapporto tra il rischio della “terapia di bypass nucleosidico” ed il beneficio per il piccolo Charlie. Se le sue condizioni cliniche si sono così deteriorate da richiedere la sospensione immediata della ventilazione meccanica e di altri supporti vitali perché la morte era imminente (situazione non evidente dalle informazioni disponibili al di fuori del Great Ormond Street Hospital: i genitori hanno sempre parlato di un quadro clinico grave ma stabilizzato da mesi), non avrebbe avuto nessun senso iniziare qualunque terapia. Ma se così non è, a confronto con i farmaci di sintesi già somministrati in precedenza al bambino nel tentativo di arrestare la progressione della malattia o controllarne i sintomi, che danno sproporzionato e inaccettabile avrebbe potuto provocare la somministrazione in dosi appropriate di derivati di nucleosidi che naturalmente sono presenti nelle cellule di ogni bambino della stessa età?
Una terza ipotesi può essere ricondotta alle difficoltà e al pericolo per il piccolo paziente del trasporto di Charlie dal Great Ormond Street Hospital di Londra al centro clinico degli Stati Uniti dove si sarebbe svolta la terapia proposta, e questo a causa delle condizioni cliniche in cui si trova. Un argomento ragionevole e da tenere in attenta considerazione, la cui valutazione è di esclusiva competenza dei medici curanti britannici. Ma se questa fosse l’unica ragione, perché non si sono prestati ad eseguire essi stessi questa terapia (per la quale non mancano certo al Great Ormond Street Hospital competenze d’eccellenza ed attrezzature idonee), come prevede l’uso compassionevole — anche al di fuori del centro primario di sperimentazione clinica –— di un farmaco ancora non registrato per l’uso ordinario?
Occorre fermarsi qui. Nessuno di noi — che lavoriamo al di fuori del Great Ormond Street Hospital e non siamo a conoscenza della documentazione clinica e delle discussioni tra i colleghi che hanno seguito con competenza, esperienza ed attenzione umana grande questo drammatico caso del piccolo Charlie — può avanzare con prudenza e rispetto verso tutti i soggetti coinvolti altre ipotesi esplicative a riguardo di questa sofferta e angosciante decisione e del suo epilogo. Oltre non è corretto andare, augurandoci che ulteriori elementi vengano successivamente resi disponibili per una valutazione serena e obiettiva — e non sotto i riflettori della ribalta mediatica e nel mezzo del clamore polemico — che aiuti a non ripetere eventuali errori commessi, né nel Regno Unito né altrove.
Una parola, però, la dobbiamo concedere alla Chiesa, che con grande equilibrio e saggezza, afferma: “E’ sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire” e non si può “imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura” straordinaria, sperimentale, “che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo onerosa”. Ma, al tempo stesso, essa riconosce anche che, “in mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità”. (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 1980, n. 4).
Come ho scritto ieri sulle colonne del quotidiano Avvenire, “i genitori britannici, che sono chiamati ad esprimere in modo vicario la volontà del proprio figlio di dieci mesi, avrebbero lecitamente potuto rinunciare a far sottoporre Charlie a quella terapia sperimentale che essi invocano, se la avessero ritenuta — sulla base delle informazioni cliniche acquisite e del rapporto tra beneficio atteso e costo sostenibile — ‘non ancora esente da pericoli’ inaccettabili ‘o troppo onerosa’. Ma, altrettanto lecitamente, possono chiedere che il proprio figlio venga sottoposto ad un protocollo terapeutico sperimentale (approvato da un Comitato di etica) presso un centro di riconosciuta competenza scientifica ed esperienza clinica nel trattamento delle malattie mitocondriali, una delle quali” ha colpito il loro figlio. “Così facendo, essi non solo intendono avvalersi di una estrema possibilità per strappare il bambino da un destino di morte terrena, ma offrono alla ricerca scientifica e clinica la possibilità di verificare l’efficacia di un approccio terapeutico innovativo e di potenziale beneficio anche per altri pazienti affetti da questa malattia, collaborando al progresso della ricerca biomedica e fornendo, appunto, un ‘esempio di generosità per il bene dell’umanità'”.
L’intera lettera dell’amica Letizia è intrisa di una rocciosa confidenza nella Provvidenza buona, cui è affidata la vita di Charlie, quella dei suoi medici e la nostra. E questo è sorprendente in un mondo (medico e non) che alla Provvidenza non dà più credito. Concludendo, mi sia consentito di ricordare un dialogo tra mia mamma e l’anziano prete della chiesa del paese dove sono nato, fatto accanto al letto di mio padre che sarebbe morto pochi giorni dopo. “Non bisogna porre limiti alla Provvidenza”, diceva mamma Gianna guardando il papà spegnersi lentamente, e don Ferdinando aggiunse: “Ma bisogna anche dare una mano alla Provvidenza perché si faccia sentire”. Con umiltà e obbedienza al Mistero, ricercatori e medici non devono sottrarre opportunità perché Esso si manifesti nell’uomo e nel mondo, quando e come vuole. Ancor più, gli devono tendere la mano ed aprirgli le porte della loro mente e del loro cuore perché il “miracolo” della cura possa sempre riaccadere.