Può mai essere vera questa storia dei gatti, almeno otto, incendiati e lanciati a morire carbonizzati nelle zone più intricate della rigogliosa vegetazione del Vesuvio per appiccare quel fuoco che da giorni sta offendendo la vista e l’olfatto dei napoletani e dell’intera Campania?
È mai possibile che oggi, nel 2017, terzo millennio dalla nascita di Cristo, un pugno di criminali (come chiamarli, altrimenti) riesca a concepire e mettere in pratica due delitti così efferati nei confronti di animali inermi e della natura, senza contare l’offesa alla popolazione?
No, questa storia non è vera. Ma il semplice fatto che sia stato possibile pensarlo e scriverlo e commentarlo la dice lunga sulla fiducia degli uomini sugli uomini e della crudeltà che siamo disposti ad accettare, pur rabbrividendo delle forme che prende o che le diamo trasformandola in spettacolo.
Le immagini raccontano di questa enorme nuvola di fumo e cenere che sovrasta il Gran Cono e si estende sulla città e molta parte del territorio circostante ammorbando l’aria, minacciando le case con gli abitanti, rendendo impossibile il regolare svolgimento delle attività economiche senza distinguere tra lecite e abusive.
Ammesso che il dolo non c’entri nulla (ma questo è più difficile crederlo) non c’è comunque da stare allegri, se è vero che assieme agli aghi di pino e alle piante secolari bruciano sostanze tossiche che qualcuno ha ben pensato di affondare in terreni che dovrebbero essere protetti.
Lo Sterminator Vesevo, che tanto rispetto deve incutere a chi sa che non è morto ma semplicemente dorme placido (e perché risvegliarlo?), è oggi ritratto in un vapore maleodorante che arde la gola e fa tossire chi lo respira senza nemmeno avere la genesi tragica ma eroica di una vera eruzione.
Che il fattaccio sia dovuto a un atto scellerato e consapevole, che sia conseguenza dell’incuria, della distrazione o della mancata manutenzione, che la responsabilità sia di uno o di molti, poco cambia agli effetti pratici. La montagna è ferita, nell’immagine e nella dignità.
Chiunque siano, i responsabili si sono meritati l’anatema del cardinale di Napoli Crescenzio Sepe: “Non sappiamo se e quando la giustizia umana riuscirà a dare il suo verdetto di condanna — si legge in una nota —. Abbiamo la certezza, però, che la condanna di Dio è già in atto e pesa sulla coscienza di chi, ritenendo di agire impunemente, ha voluto ‘uccidere’ l’ambiente, si è messo fuori dalla grazia di Dio ed è in peccato mortale”.