MASSIMO BOSSETTI CONDANNATO ALL’ERGASTOLO PER L’OMICIDIO DI YARA GAMBIRASIO.
Ergastolo. Alla fine i giudici non gli hanno creduto e Massimo Bossetti non potrà uscire a testa alta dal portone del carcere, come aveva promesso ai suoi figli. Ergastolo: i giudici della Corte d’Appello hanno confermato che è stato lui, il muratore di Mapello, ad uccidere con ferocia Yara Gambirasio. A nulla è valsa l’accorata autodifesa pronunciata dall’imputato prima che la Corte si ritirasse in camera di consiglio: “Ve lo giuro — aveva gridato — mai diventerò colpevole della mia innocenza. Questo è il più grave errore giudiziario di questo secolo”.
Non era stata la solita autodifesa, piuttosto sembrava quasi una sfida: “Sono sicuro che questo Dna non è il mio, vi supplico e vi imploro di disporre la perizia. Non sono un assassino, capitelo una volta per tutte. La violenza non è la mia indole, nel cuore di Bossetti c’è l’amore per la famiglia, non la violenza. Non posso marcire in carcere per un delitto che non ho commesso”. In quella mezz’ora di dichiarazioni, Bossetti aveva iniziato pensando proprio a Yara: “Poteva essere mia figlia, la figlia di tutti noi. Neanche un animale avrebbe usato tanta crudeltà. Lei è l’unica vittima di questa tragedia”.
Già. La piccola Yara morta alla fine di un’agonia orribile, vittima di una indescrivibile violenza. Rapita una sera di novembre del 2010, sparita nel nulla, probabilmente in quel pezzo di strada, 800 metri, che portano dalla palestra alla sua casa di Brembate Sopra. Nessun testimone, nessuna immagine. Nulla. Il suo corpo ritrovato tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. E in quei tre mesi Yara era diventata davvero figlia di tutti. Delle centinaia di persone, volontari, forze dell’ordine, che giorno dopo giorno l’avevano cercata in ogni angolo del territorio. Si partiva la mattina presto e si rientrava solo quando faceva buio. E più i giorni passavano, più crescevano angoscia e paura. Di Yara non c’era traccia, soltanto centinaia di false segnalazioni.
Mentre la cercavano, lei era già nelle braccia del Padre. Il suo corpo era gettato in un campo, la neve scesa copiosa in quei giorni, l’aveva nascosto anche agli occhi di chi la cercava. Poi mesi, anni di indagini. Difficili, complicate, senza uno straccio di pista da seguire. Fino al ritrovamento di quel Dna, una traccia diventata la prova regina. Fino all’arresto di Bossetti, spettacolare, fermato in un cantiere, ammanettato e mostrato alle telecamere di tutto il mondo come fosse un trofeo.
Dovremo aspettare la pubblicazione delle motivazioni per capire di più, per capire soprattutto perché i giudici non hanno ritenuto di dover autorizzare una nuova perizia sul Dna. Comunque sia questa sentenza continuerà a dividere. Troppe le zone d’ombra, troppe le domande, i dubbi. Non c’è movente, non c’è arma del delitto, non ci sono testimoni. C’è solo la traccia di un Dna. Sufficiente? Per i giudici evidentemente sì, anche se i tempi lunghissimi della camera di consiglio starebbero ad indicare che non tutto è così chiaro e certo.
C’è però qualcosa che non cambia qualunque sia la sentenza. Il ricordo di Yara, del suo martirio e di tutto il bene che la sua sofferenza e la sua morte hanno generato. Nei giorni delle ricerche la chiesa di Brembate era diventata un miracolo visibile agli occhi di tutti. La gente si alternava in un’interminabile catena di preghiere. Su un libro molti scrivevano pensieri ed emozioni. C’era anche chi entrava in chiesa e pregava come non faceva ormai da molti anni. La morte di Yara, il suo martirio, hanno provocato un’interminabile ondata di bene. Il suo ricordo continua a generarne. La misericordia di Dio l’ha abbracciata e consolata. E questo ha consolato anche noi. Chiunque sia l’assassino.