Manfredi ricorda il padre Paolo Borsellino con un lungo “reportage” sull’Agenzia Sir che ci riconsegna un ritratto “privato”, intimo e riservate del giudice siciliano trucidato dalla Mafia nella strage di Via D’Amelio. Un ricordo che consegna ai posteri, come tante volte raccontato in questi lunghi 25 anni che separano quel dannato 19 luglio 1992 ad oggi, con una Mafia che è tutt’altro che morta ma con una memoria di quello che lui, Falcone, Livatino, Chinnici e tanti altri uomini e donne che ha speso la vita per combattere un’idea maligna che come un virus ha rischiato e rischia di prendersi larghe parti della Cosa Pubblica. «Sin dai primi giorni successivi alla sua morte, infatti, circolava la voce che egli fosse andato incontro ‘rassegnato’ a questo infausto destino», spiega Manfredi della “consueta” modalità di ricordare il padre amato. «Bene, ciò non corrispondeva affatto a verità: mio padre amava in modo viscerale la vita e le tante piccole o grandi sorprese che questa riserva, sì da apparirmi inverosimile che egli andasse incontro alla morte ritenendola in quel momento un evento ineluttabile».
Il figlio, come del resto tutti quelli che lo hanno conosciuto e non odiato non possono che ricordare un fatto: dalla Mafia all’educazione, dalla scuola alla famiglia, il legame unico era quell’amore alla vita, «ci ha lasciato un grandissimo patrimonio morale e ci ha insegnato ad essere umili», spiega ancora Manfredi Borsellino. Una strage come quella di via d’Amelio non può cancellare tutto quanto spiegato e vissuto dal giudice Paolo Borsellino e come dice ancora Manfredi, non tutto è finito: «La nostra fede ci rende sicuri del fatto che un giorno lo rivedremo, bello e sorridente, come lo ricordiamo sempre». (agg. di Niccolò Magnani)
PAOLO BORSELLINO: 25 ANNI FA L’ATTENTATO, MISTERI E TESTIMONI
IL RICORDO DI EMANUELA LOI
A venticinque anni dall’attentato di via D’Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta, vengono ricordati anche coloro che furono costretti a sacrificare la loro vita per la vicinanza al magistrato. Tra di essi, Emanuela Loi, agente della scorta che il 19 luglio verrà ricordata dal suo paese d’origine, Sestu, che ha organizzato una cerimonia commemorativa assieme all’associazione contro le Mafie, “Noi non dimentichiamo”. La cerimonia sarà organizzata nella chiesa di San Giorgio Martire, e sarà officiata dall’arcivescovo di Cagliari in persona, Don Arrigo Miglio. La corona di fiori disposta dal Comune per onorare l’agente Loi sarà invece deposta direttamente dal sindaco di Sestu, Paola Secci, alla presenza delle autorità militari e civili e soprattutto dei familiari di quella che viene considerata, con buona ragione, una martire che ha dato la sua vita per la legalità, pur conoscendo i pericoli che la Loi e tutti gli agenti di Borsellino correvano dopo la strage di Capace. (agg. di Fabio Belli)
IL RICORDO NON È SBIADITO
Sono passati 25 anni da quel maledetto 19 luglio del 1992, quello della strage di via d’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino, ma il ricordo non è sbiadito: è un giorno infausto, uno di quelli in cui tutti si ricordano dov’erano, un po’ come capita per l’11 settembre, l’attentato alle Torri Gemelle. Accade quando la storia cambia in maniera inesorabile, quando lo shock è talmente forte da rendere impossibile dimenticare dove ci si trovasse in quell’istante. Eppure, a 57 giorni dall’altra strage che segnò l’Italia, quella di Capaci in cui venne fatto saltare in aria Giovanni Falcone insieme alla moglie e alla scorta, la morte di Paolo Borsellino non era poi così “una sorpresa”. Lui stesso ne era consapevole: lo avevano informato che in città era arrivato il tritolo a lui destinato, ma non aveva fatto una piega. Aveva continuato a lavorare più degli altri: come ricordato dal figlio Manfredi in una lettera straziante pubblicata dopo la sua morte, Borsellino non aveva perso l’abitudine ad alzarsi ogni mattina alle 5, convinto che in questo modo avrebbe potuto “fottere il mondo con due ore d’anticipo”. L’appuntamento col destino, o forse sarebbe meglio dire con l’infamia della mafia, è arrivato troppo presto. Borsellino era appena giunto sotto casa della mamma a quella visita non aveva voluto rinunciare: erano le 16.58 quando una Fiat 126 venne fatta esplodere con un telecomando a distanza. Con il giudice morirono anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
STRAGE VIA D’AMELIO, L’AGENDA ROSSA E QUELLA STRADA DA SGOMBRARE
Ma se in un modo o nell’altro la mafia avrebbe comunque trovato il modo di uccidere Paolo Borsellino, c’è comunque qualcosa che non torna nella ricostruzione della strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992. Tornano ad esempio alla mente le parole di Antonino Caponnetto, che a Gianni Minà in un’intervista disse:”Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze”. Ma non è questo l’unico punto interrogativo in una vicenda che ad un quarto di secolo dalla sua materializzazione continua a nascondere un “non detto” pesantissimo. Ad esempio è diventato di dominio pubblico il fatto che la sua agenda rossa, il taccuino su cui era solito annotare tutte le sue intuizione e i suoi sospetti, le sue scoperte e i suoi studi, non sia mai stata ritrovata. Strano, perché dopo aver pranzato a Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i figli, l’agendina era con lui. Non se ne separava mai il giudice, chi l’abbia fatta sparire resta un mistero. Così come lo è tuttora il vero e proprio mandante politico della strage, perché come aveva confessato Borsellino alla moglie: “Quando mi uccideranno sarà stata la mafia a uccidermi, ma non sarà stata la mafia ad aver voluto la mia morte”.