Caro direttore, negli ultimi giorni la vicenda di Charlie Gard è stata sotto gli occhi di tutti e ha destato le più diverse reazioni, ma soprattutto sgomento, rabbia e angoscia. Reazioni certamente più che naturali perché non sembra altro che un omicidio per mano dello Stato, dove i genitori sono stati relegati in un angolo senza poter prendere alcuna decisione in merito alla salute (o meglio, salvezza) del proprio figlio. Quanti di noi, però, si sono domandati se le informazioni che impazzano su quotidiani, blog, social media etc. stiano descrivendo la realtà dei fatti? Non è stato sufficiente neanche la testimonianza di un’infermiera che lavora in quell’ospedale a interrogarci, perché abbiamo avuto subito la fretta di etichettarla come una visionaria. Quanti di noi, apparentemente così interessati a “capire”, hanno trovato il tempo e la voglia di prendere in mano le sentenze inglesi, quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo (dove peraltro sono riportate tutte le evidenze mediche raccolte nei mesi) o, anche, i comunicati ufficiali dell’ospedale dove Charlie è ricoverato per conoscere meglio la sua storia, cosa l’ha portato lì e perché la sua vicenda sia finita davanti a una corte? Questo è l’unico materiale a nostra disposizione. Non bisogna essere addetti al mestiere per farlo, perché non è innanzitutto un problema di cavilli legali, ma di verificare se quello che ci propinano come la Verità lo sia davvero. Dopo allora si che si darà battaglia per difenderla. Non prima.
Charlie Gard è un bambino inglese che nasce il 4 agosto del 2016 e dopo poche settimane di vita gli viene diagnosticata una malattia genetica molto rara e degenerativa: la sindrome da deplezione del Dna mitocondriale, nella sua forma più acuta per le mutazioni in un gene chiamato RRM2B. A causa di queste mutazioni l’organismo di Charlie non riesce a produrre energia sufficiente, deperendo progressivamente. Questa è la ragione per cui non riesce a respirare autonomamente, non può muovere nessuna parte del corpo e, oltretutto, è encefalopatico ossia non c’è in lui una normale attività cerebrale. Non esiste una cura per questa sindrome ma solo dei trattamenti. Uno di questi è stato proposto dai genitori. Si tratta di un trattamento pioneristico disponibile negli Usa che non è mai stato sperimentato neanche sui topi affetti da tale mutazione genetica, ma solo su pazienti affetti da una sindrome mitocondriale meno grave. Proprio per questa ragione i primi di gennaio di quest’anno i medici dell’ospedale (Great Ormond Street Hospital, Gosh) cha ha in cura Charlie erano pronti a chiedere l’autorizzazione alla Commissione Etica (trattandosi di un trattamento sperimentale) per trasferire il bambino oltreoceano. Tuttavia prima che questa si pronunciasse Charlie ha iniziato a soffrire di una grave forma di encefalopatia epilettica (High Court, §58 “Dr. B confirmed that, whilst Charlie is not brain dead, he is persistently encephalopathic. In other words, there are no usual signs of normal brain activities such as responsiveness, interation or crying”). I suoi genitori hanno più volte affermato che “we would not fight for the quality of life he has now” (§48, High Court) e che l’unica speranza di salvezza era riposta nel trattamento statunitense. Tuttavia alla luce del grave peggioramento del quadro clinico, i medici del Gosh, in costante dialogo con la clinica americana, hanno ritenuto che il danno cerebrale fosse tale che a nulla sarebbe servito quel trattamento. Lo stesso dottore americano ha dovuto ammettere che “I can understand the opinions that he is so severely affected by encephalopathy that any attempt at therapy would be futile. I agree that is very unlikely that he will improve with that therapy. It is unlikely» (§98, High Court). Mentre un altro dottore, di cui si sono avvalsi per una seconda opinione, ha confermato che “on Charlie’s brainwave tracing you can see seizure activity, but that now his muscles are so weak there is just an electrical signal present” (§87, High Court).
Nel 99 per cento dei casi analoghi a questo (casi che purtroppo si verificano con cadenza multipla giornaliera) i medici in constante dialogo con i genitori stabiliscono di comune accordo i passi successivi della cura o dei trattamenti. Tuttavia, in questo caso, non è stato trovato un accordo comune perché, comprensibilmente, i genitori non volevano abbandonare l’ultima speranza, secondo loro di salvezza, per il figlio: “Charlie’s parents both believe and have said that his present life is not worth sustaining unless treatment is available” (§61, High Court). Così, è stato necessario affidarsi alle vie legali, sapendo che questo avrebbe comportato la sospensione della loro patria potestà a favore di un giudice.
L’ospedale ha adito l’High Court of Justice chiedendo se fosse lecito e nei best interests di Charlie interrompere la ventilazione, passare alle cure palliative e non sottoporsi al trattamento sperimentale negli Usa. Si sono costituiti come parti lese i genitori del bambino e Charlie stesso, rappresentato da un guardian, di modo che si potesse “far sentire” anche la sua voce. Tutto ciò perché, ripetiamo, i genitori senza la prospettiva del trattamento pioneristico non pensavano che fosse nell’interesse di Charlie rimanere a lungo attaccato alle macchine: questo sarebbe stato accanimento terapeutico (§126, High Court, “Very sadly in Charlie’s case there is consensus across the board, including form his parents, that Charlie’s current quality of life is not one that should be sustained without hope of improvement”). Tuttavia per i medici, e così anche per la corte, le evidenze scientifiche (unanimi in merito) insieme alle condizioni mediche di Charlie hanno fatto pensare che anche quella speranza di miglioramento, cui i genitori erano tanto attaccati, era troppo per quel bambino. Troppo non perché non ancora sperimentata sui topi, troppo perché non avrebbe portato alcun beneficio (come il medico americano stesso si è trovato ad ammettere). Per questo motivo l’High Court of Justice ha stabilito che non fosse nei best interests di Charlie sottoporsi al trattamento sperimentale, ma fosse così necessario interrompere la ventilazione e passare a cure palliative.
I genitori hanno quindi fatto ricorso alla Court of Appeal nella speranza che il loro figlio potesse essere portato negli Stati Uniti. La Corte ha ripetuto le evidenze mediche sopra esposte e affrontato il nuovo argomento legale avanzato dai genitori. Secondo quest’ultimi i casi relativi ai trattamenti medici sui bambini si distinguerebbero in due categorie: la prima categoria comprenderebbe quelli in cui i genitori, che si oppongono a un trattamento medico, non hanno un’alternativa da sottoporre alla corte e, quindi, quest’ultima sarebbe chiamata a verificare quale sia l’opzione che meglio tuteli i best interests del bambino. La seconda categoria, invece, prevederebbe la presenza di tale alternativa. Qui i medici sarebbero chiamati a privilegiare l’opzione suggerita dai genitori a meno che questa arrechi significant harm al minore (parametro che solleva non poche perplessità).
Nel caso in questione, i genitori di Charlie hanno chiesto alla corte di porre la loro situazione nella categoria 2. Tuttavia le sentenze precedenti, cui la corte deve riferirsi, portano il giudice della Court of Appeal a ritenere che i casi della categoria 2 non sono analoghi al presente (per una serie di ragioni che purtroppo non si ha lo spazio di analizzare) e soprattutto la battaglia di Charlie non può ridursi a una battaglia di diritti. Così la Court of Appeal fa propria una considerazione occorsa dieci anni fa in un caso analogo a quello di Charlie: “What is the court to do in such a situation? It is not an occasion — even in an age pre-occupied with “rights” — to talk of the rights of the child or the rights of parent or the rights of the court. […] the sole yardstick must be the need to give effect to the demands of paramountcy of the welfare of the child” (§81, Court of Appeal). Proprio per questo “Best interests is the established yardstick which applies to all cases and there is no justification for this court now to endorse the creation of a sub-set of cases based upon establishing significant harm” (§74, Court of Appeal).
4Anche se il minore non dovesse provare alcun dolore (cosa che nel caso di Charlie non è scientificamente provata) la domanda da porsi è se valga la pena attaccarsi alla vana speranza di prolungare la sua vita andando in America (vana, perché tutte le evidenze mediche suggeriscono questo) senza che ciò porti alcun beneficio al bambino stesso. Detto in altri termini, non è questo accanimento terapeutico? Alla luce di ciò la Court of Appeal può concludere che — fermo restando che tutte le evidenze mediche portano alla conclusione che non c’è un’alternativa percorribile per curare Charlie — la questione se, dal punto di vista legale, esista o no questa categoria 2 e se si possa applicare il parametro del significant harm non è oggetto del presente caso (cfr. §113, Court of Appeal). Pertanto si può ribadire, in linea con la decisione di primo grado, che il trattamento americano non è nei best interests di Charlie.
La Supreme Court, ultimo grado di appello a livello nazionale, ha confermato i due precedenti giudizi, dando così la possibilità ai genitori di adire la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo lamentando la violazione degli artt. 2 (diritto alla vita), 5 (diritto alla libertà), 6 (diritto a un equo processo) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Per quanto concerne il divieto di sottoporre il bambino a trattamenti sperimentali in Usa la Corte di Strasburgo non rileva alcuna violazione dell’art. 2 perché la convenzione non stabilisce la necessità assoluta a ricorrere a trattamenti non autorizzati e ciascuno stato può avvalersi del proprio regulatory framework (nel caso in questione il permesso doveva essere dato da una Commissione Etica) per potervi accedere. Nonostante i genitori non avessero avanzato l’argomento riguardante la sospensione della ventilazione e il passaggio alle cure palliative, date le circostanze in esame, i giudici hanno deciso di spendere qualche parola in merito. Non essendoci una posizione unanime in merito tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa è garantito allo Stato un margine di discrezionalità, non solo per quanto concerne la sospensione di trattamenti salva vita, ma anche per quanto riguarda la tutela della libertà di scelta e la protezione della vita privata e familiare. Ciò non significa che lo stato sia in possesso di un’assoluta autonomia in merito, tuttavia nel caso di Charlie la Cedu, alla luce anche delle evidenze sottoposte dalle parti, non rileva alcuna violazione del suo diritto alla vita. La mancanza di chiarezza da parte dei ricorrenti in merito alla presunta violazione dell’art. 5 porta la Corte a non prendere in esame tali argomentazioni.
Infine, per quanto concerne la violazione degli artt. 6 e 8 la Corte non può che evidenziare che ci sia stata una limitazione di tali diritti nei confronti dei genitori e tutto sta nello stabilire se sia o no legittima. Fermo restando che, anche in questo caso, lo stato ha una certa discrezionalità in materia, la Corte stabilisce che l’ospedale ha legittimamente portato il caso davanti a un tribunale e conferma che è ampiamente sostenuto che in tutte le decisioni concernenti i bambini “their best interests must be paramount” (§118, Corte Edu). Sottolinea inoltre come la decisione di non sottoporre Charlie al trattamento americano non poteva prescindere dal fatto che c’era il rischio, elevato, di significant harm (§119, Cedu) insieme alla consapevolezza che non avrebbe portato alcun beneficio al suo quadro clinico. Detto questo, la Corte non ritiene ci sia stata una limitazione sproporzionata del diritto dei genitori alla libertà e alla tutela della vita privata e familiare. La domanda che ora sorge è: cosa ne sarà di Charlie? L’ospedale assicura che “there will be no rush […] to change Charlie’s care and any future treatment plans will involve careful planning and discussion”.
Questi sono gli eventi e le decisioni più rilevanti che hanno segnato la vita di Charlie e dei suoi genitori negli ultimi mesi. Decisioni che possono non trovarci d’accordo e fatti che ci lasciano sgomenti. Ora si pone un’alternativa: continuare a battagliare per le nostre idee (pur buone e giuste) o lasciarci interrogare da questa vicenda per come essa è.
Concludo, così, con le parole di Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina, secondo cui “poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”.