Vi prego, non usate il piccolo Charlie. Non adoperate il piccolo Charlie per le vostre battaglie. Sono battaglie sacrosante, è giusto difendere la vita, capire dove finisca la cura e cominci l’accanimento terapeutico, in quali condizioni è giusto staccare una spina o no. Ma lasciate il piccolo Charlie in pace. “Cessate d’uccidere i morti, non gridate più”: i versi di Ungaretti mi risuonano continuamente in testa mentre leggo le polemiche sul bimbo che sta andando verso il suo destino eterno.
Perché per me il piccolo Charlie è questo: un bimbo che sta correndo verso le braccia del Padre. Verso le braccia di quel Padre a cui tutti, dopo ottant’anni o dopo otto giorni, siamo destinati.
Poi, mi inchino davanti al dolore dei genitori. Non oso nemmeno immaginare che cosa debba essere stare davanti al tuo bimbo straziato dal suo dolore, immaginare che ci possa essere una speranza di averlo con sé ancora un momento e vedersela negare.
Quel che mi inquieta, in tutta questa vicenda, è che la decisione sia finita in mano a un giudice. Fosse dipeso da me, l’avrei lasciata ai genitori. Possono sbagliare, certo, i genitori. Tutti noi genitori sbagliamo infinite volte, quando facciamo delle scelte per i nostri figli. Ma Dio continua ad affidarci i Suoi figli. Perché quando un bimbo nasce — anche se, magari, l’abbiamo costruito in una provetta — è sempre un figlio di Dio che viene al mondo. E quando Dio mette al mondo un figlio lo affida sempre a quel papà e a quella mamma (e anche se, magari, padri e madri sono combinati in qualche strana combinazione, è sempre Dio che usa quella strana combinazione per permettere a quel bimbo, figlio Suo, di esistere). Un papà e una mamma, certo, possono sbagliare. A volte, lo so bene, ci sono genitori totalmente inadeguati, ed è bene che un giudice intervenga. Anche un giudice, a volte, può sbagliare (perfino un medico, a volte, può sbagliare). Dei due, preferirei lo sbaglio dei genitori.
Detto questo, torno al piccolo Charlie. A volte ci sono dilemmi in cui, qualunque scelta si faccia, c’è sempre un valore affermato e uno calpestato. A volte, ci sono davvero situazioni in cui si può solo, con Ungaretti, non gridare più. E ringraziar Dio che, con tutti i nostri sbagli, ci aspetta a braccia aperte. Dopo ottant’anni o dopo otto giorni.