Il capo dello Stato presiede il Consiglio superiore della magistratura ed è il capo delle forze armate. Nell’esercizio delle sue funzioni non ha responsabilità, cioè non risponde dei suoi atti.
Che cosa deve pensare un cittadino del nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando, con i poteri di cui dispone, dopo 25 anni dall’assassinio di Paolo Borsellino dinanzi al plenum del Csm si esprime come segue: “Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di Via D’Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato”?
Per favore, Presidente, non sia generico. Ci ci dica quali sono state le incertezze e gli errori, e quali sono gli interrogativi che non hanno fino ad oggi consentito l’accertamento della verità sull’assassinio del magistrato palermitano.
Lei, Presidente, può prendere o sollecitare iniziative delle autorità giudiziarie, degli organi politici, degli apparati di prevenzione e repressione, delle forze armate. Ci dica almeno come ad un quarto di secolo dai fatti sono state svolte le ricerche sulla morte di Borsellino.
Quali sono state quelle che lei chiama incertezze. Quali sono stati quelli che lei chiama errori. Chi li ha commessi e quali sanzioni o conseguenze hanno colpito i responsabili. Quali sono le incertezze in cui si muovono gli inquirenti.
Ci deve essere un modo di parlare al paese — a noi cittadini —, di ricordare i morti spazzati via dalla più potente associazione a delinquere della storia d’Italia, che non sia quello retorico.
Al pari di Falcone, Borsellino si sentiva la morte sotto le suole, come amava dire. Sapevano entrambi che Cosa nostra ne avrebbe fatto strame. Ebbene, non si lasciarono piegare, opposero resistenza, lavorando tenacemente a contrastare la mafia su ogni possibile terreno.
Cittadini di questo tipo sono rari. Perciò non li si può trattare tacendo incertezze, errori e interrogativi sulla loro eliminazione.
Può anche capitare — come nel mio caso — di essere studiosi degli avvenimenti di cui Falcone e Borsellino sono stati protagonisti. Lo facciamo come possiamo, avendo a disposizione archivi che non si aprono, documenti che vengono secretati, autorità che si negano.
Col primo corriere, caro Presidente, riceverà il mio libro, terminato alcuni giorni fa, Dopo Falcone e Borsellino perché lo Stato trattò con la mafia? Come vedrà, mi pongo le stesse domande che sono sottese al suo discorso al Csm. Sia cortese, le renda esplicite, comprensibili ai cittadini italiani come ho provato a fare io.
L’uccisione di Paolo Borsellino non fu un’azione improvvisa. Faceva parte del programma di eliminazione dei principali nemici di Cosa nostra sin dalla condanna dei boss nei processi presso i tribunali di Palermo. Le ragioni furono le stesse che determinarono quelle di Falcone. Pur essendo annunciata, quella di Borsellino fu, però, un’esecuzione precipitata, cioè accelerata da parte di Riina in persona.
Fu la risoluta opposizione alla trattativa tra stato e mafia a segnare la fine del magistrato siciliano? Questa fu condotta da due esponenti dell’Arma dei carabinieri, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Essi ebbero come interlocutore “il più politico dei mafiosi e il più mafioso dei politici”, cioè l’ex sindaco (del sacco edilizio) di Palermo, Vito Ciancimino, per conto dei boss Riina e Provenzano. La ricerca di intese e di scambi di favori si snodò con i governi Andreotti, Amato e Ciampi, cioè dalla fine del 1991 al 1993. E si tradusse in un atto importante.
Il ministro della Giustizia Giovanni Conso (docente universitario, ex presidente della Corte costituzionale, uomo piissimo e probo) durante il governo Ciampi, nella prima settimana del novembre 1993 esentò diverse centinaia di boss dall’applicazione del regime del 41-bis (cioè del carcere duro). L’aveva applicato a costoro il ministro Martelli durante il governo Andreotti e Amato. In cambio Cosa nostra si impegnò a rinunciare alla campagna stragista che era stata estesa fuori della Sicilia fino a colpire città d’arte come Roma, Firenze e Milano con decine di morti e devastazione del nostro patrimonio artistico.
Presidente Mattarella, Lei, che ha accesso agli archivi e alle informazioni di polizia, dell’Arma dei carabinieri, dei nostri servizi segreti, può confermare che questa trattativa tra lo stato e uno tra i più potenti poteri criminali del mondo ci sia stato?
Seconda questione: gli assassini di Falcone e Borsellino (al pari di quelli di Pio La Torre, Salvo Lima, Ignazio Salvo) furono opera della mafia oppure le modalità poco mafiose (di tipo palestinese e colombiano) con cui vennero compiute (con tonnellate di esplosivo chimico tale da smantellare interi pezzi dell’autostrada palermitana) inducono a pensare che Cosa nostra le abbia eseguite insieme ad altri poteri criminali, anche internazionali?
Questo è il dubbio non solo mio, ma anche dell’ex premier Giuliano Amato, dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, del prefetto Gianni De Gennaro. L’Italia doveva essere emarginata dal gruppo di Stati che si apprestavano a gestire la crisi del Medio Oriente, gli approvvigionamenti di petrolio, le nuove rotte di droga e stupefacenti.
Presidente, a lei risulta, grazie ai grandi poteri su cui può contare, che qualcosa di simile sia potuto avvenire?
Terza questione. Dopo Falcone, la vittima designata da Cosa nostra era l’uomo forte della Dc agrigentina Calogero Mannino. D’un tratto Riina fa sospendere a Giovanni Brusca l’agguato contro il potente ex ministro. Il bersaglio diventa Borsellino.
A Lei, caro Presidente, non dovrebbe essere difficile appurare quanto uno studioso come Nando Dalla Chiesa ha spiegato nel suo recente bel libro, Un strage semplice (Melampo, Milano 2017). Cosa nostra si rende conto che la creazione — prevista per Falcone — della Procura nazionale antimafia e la decisione dei ministri Martelli e Scotti di candidare alla sua testa, dopo la morte di Falcone, Borsellino, era un pericolo mortale per l’organizzazione criminale. Perciò bisognava dare un segnale forte, eliminandolo. Anche perché egli si era reso responsabile di un’altra grave iniziativa. Aveva reso di pubblico dominio, parlando alla biblioteca palermitana di Casa Professa, che il movente di Capaci era il rapporto mafia-appalti, un vecchio groviglio di interessi e di rendite.
Possibile che dal Qurinale non si riesca a sapere, intervenendo sui due ufficiali dei Ros, quali furono gli esiti delle tenaci indagini di Borsellino sul fronte imprenditoriale, cioè sui collegamenti stabilitisi tra Cosa nostra e gli industriali del Nord legati all’edilizia? Forse ci aiuterebbero a capire i motivi dei clamorosi depistaggi del processo Borsellino richiamati da Enrico Deaglio nel volume Il vile agguato (Feltrinelli, Milano 2012).
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Sta per andare in libreria il nuovo saggio di Salvatore Sechi, “Dopo Falcone e Borsellino perché lo Sta to trattò con la mafia?”, goWare/Amazon, Firenze.