Luca è atleta skyrunner, uno di quelli che vanno a caccia d’immensità per ingrandire la vita. Nato a Cuneo – ventidue anni, arrampicatore di pareti – sa bene che salire una montagna è un miscuglio di preghiera e sfacciataggine. Nel cuore coltiva il sogno di scalare il Dhaulagiri (8167 m.), la settima montagna del pianeta. Nato per chiedere: «Il verbo della vita è chiedere, avere una domanda, lanciare il punto interrogativo verso l’alto, annuvolato o sgombro» (E. De Luca). Il sogno – dopo aver racimolato i soldi necessari sbaragliando la concorrenza di un premio – si è infranto lungo una discesa: chi sale-verso sa bene che il salire non è il tutto della scalata. Solo chi scende potrà raccontare. L’8 luglio scorso Luca è morto dopo una gara-in-verticale di corsa. Se n’è andato alla maniera dei sogni di chi arrampica in alto: salendo o scendendo, faccia a faccia con la montagna. Pochi giorni prima aveva consegnato la tesi: «Gli effetti del succo di barbabietola sulla prestazione sportiva di alta quota». Il sapere della scuola con il sapore di una passione: collegamento interdisciplinare autobiografico.
Morto Luca, rimane la tesi-in-sospeso e la madre, Cristina. Che il giorno del funerale, bando alla commiserazione, riceve un invito dai prof: “Signora, venga lei a discutere la tesi di Luca”. Certe inviti sono azzardi, certe madri sono nate per azzardare, donne-di-assalto: attaccamento, premura, istinto, fragilità, tempismo, paura, sorriso, forza. Sommate tutto, moltiplicatelo per x-che-tende-a-infinito e vi comparirà un frammento di madre. Mica è roba lunare per loro. In fondo, diventando madre, a cambiare è solamente una cosa: t’imbatti nell’attimo in cui smetti d’essere la persona più importante della vita. In caso d’emergenza, chiamatele: nessuna, più di loro, sanno essere vice dei loro figli. Sanno farne le veci dando l’impressione d’essere radice, prolunga.
Nessuna nasce madre: lo diventa nell’attimo nel quale le nasce un figlio. Madre e figlio nascono assieme, forse per completarsi in caso di rottura: «Sapevo tutto di lui e so tutto di questa sua tesi – racconta la mamma che ha discusso la tesi al posto del figlio-caduto -. Per la seconda laurea mi mancavano pochissimi esami: forse non li ho dati perché dovevo fare questo passo per Luca». A Luca, esperto in ascese, la salita: della montagna, dell’università. Alla mamma – esperta di discesa, la parte meno nota della scalata – la discussione della tesi: in due l’avventura è compiuta. Nulla è stato lasciato sospeso: in-cordata non è solo condizione di arrampicate, è maternità-applicata in caso di assenza prematura della prole.
Una madre che discute la tesi di laurea del figlio è sorpresa: non c’è madre che meriti di vivere più a lungo del figlio. Quando capita – capita più del previsto – due sono le possibilità: ammainare il ricordo di lui fino a chiedere “Dacci oggi il nostro tabù quotidiano”. Oppure tentar l’assalto alla follia: farsi voce di chi l’ha perduta, presenza di chi è assente, somiglianza di chi ha perduto la forma. “È tutto sua madre, è tutto suo padre”, dicono vedendo i figli, risalendo alle relative paternità, maternità. Cristina è per me ripasso della storia di sir Edmund Hillary, primo uomo sull’Everest, anno 1953. Arrivato in compagnia di Tenzing Norgay non gli chiese nessun scatto di quell’attimo che fece storia. Ci salì – fu il primo di molti altri dopo – a nome di tutti, ritenne fosse conquista collettiva: chi arriva primo ricordi d’essere sempre primo-di-altri. Lo considero, a oggi, il più alto gesto di umiltà: l’impresa fu più importante di chi la firmò. Fu gesto-di-madre: quando nasce un bambino, impresa verticalissima, loro si tirano in disparte. A contare non è la firma, ma ciò che si è annunciato. Scompaiono per riapparire, in caso di emergenza. Di supplenza. Quando serve, anche solo per completare un’impresa iniziata, per discutere la tesi di un figlio. “Non è mai bello lasciare le cose a metà”: così ragionano. Nate per completare le cose lasciate-in-sospeso.