“La bambola rotta non la voglio”. A dire così, racconta la signora Lucrezia Povia (anche autrice del libro in cui racconta la sua storia, E adesso vado al Max!, Ancora editrice), mamma di Massimiliano Tresoldi uscito da uno stato vegetativo durato circa dieci anni, era Beppino Englaro, padre di Eluana. “Abbiamo fatto diversi incontri pubblici insieme” ha detto a ilsussidiario.net la signora Lucrezia “ma lui non ha mai accettato le condizioni della figlia che, le assicuro, stava meglio di mio figlio. In casi come questi, o accetti la situazione e credi a quello che c’è in quel corpo o la vita diventa un inferno che devi in qualche modo interrompere. Per te, non per il figlio”. A Venezia sta succedendo di nuovo qualcosa di analogo. Un padre, con la figlia in stato vegetativo dopo un incidente da ormai dodici anni, rimasto vedovo, ha detto di non farcela più a seguirla e chiede le venga staccata la macchina.



Signora Lucrezia, come sta adesso suo figlio?

Purtroppo non riesce a camminare, ma almeno grazie agli sforzi fatti e alle persone che hanno sempre creduto in lui, siamo riusciti a fargli venire fuori la voce, può parlare, ed è la cosa più bella che poteva succedere.

Massimiliano ebbe un incidente nell’agosto del ’91, quanto tempo è stato in quelle condizioni?



Fino alla sera della vigilia di Natale del 2000, quando ha visto che la sua mamma non ce la faceva più e si è ripreso, imrpovvisamente. Tutte le sere gli facevo il segno della croce in fronte, quella volta non avevo neanche la forza e ho detto, Massimiliano fattelo tu. E lui ha mosso il braccio.

Dopo l’incidente la diagnosi fu di cervello tranciato, tronco morto, stato vegetativo. E’ vero?

A quei tempi si definiva ancora coma apallico (definizione coniata per la prima volta nel 1940, quando uno stato clinico è caratterizzato dalla perdita della funzione del pallio, la parete dorsale del telencefalo, nda). Adesso si dice di minima coscienza, le definizioni cambiano in continuazione. Per i neurologi lui era chiuso “in un guscio d’uovo” che finché non si apre non c’è niente da fare. Avevano detto che non si sarebbe aperto mai.

Poi cosa è successo?

E’ stato in ospedale otto mesi, ma lo vedevo deperire ogni giorno, lo vedevo peggiorare sempre di più. Dopo quei mesi ho detto basta, me lo porto a casa.

Massimiliano era attaccato a qualche macchinario per restare in vita?

Assolutamente no, aveva solo il sondino nasogastrico per nutrirsi. Allora la Pec (sonda gastrica per nutrizione, nda) in Italia non c’era, persone come Max bisognava portarli a Innsbruck ma le assicuro che era meglio prima con il sondino, perché si riusciva a migliorare la qualità di vita. La Pec la mettono a tutti e poi non la tolgono più, va direttamente allo stomaco per alimentarli. 

Dunque lo ha portato a casa. E poi?

Mi hanno detto tutti che mi comportavo da incosciente, i medici e anche i preti. Ma io ho risposto: questo figlio ho fatto tanta fatica a farlo nascere e adesso ci penso io. Se deve morire, morirà a casa con i suoi genitori. Mi hanno anche denunciata. Viste le condizioni in cui mi dicevano che era, cioè senza possibilità, perché avrei dovuto ricevere un’altra telefonata come dopo l’incidente, per sentirmi dire che era morto?

Viene in mente il caso di Charlie Gard, il bambino inglese.

Certamente, abbiamo pregato moltissimo per lui. Secondo me però hanno sbagliato i genitori, viste le sue condizioni dovevano portarlo subito a casa e tenerlo con sé fino a quando sarebbe vissuto, visto che il suo destino era quello. Bisogna accettare la situazione, non accanirsi per sperare che viva contro ogni speranza. Sarebbe almeno morto a casa con loro.

In passato alcuni testimoni di casi analoghi al suo hanno raccontato che i pazienti una volta risvegliatisi raccontavano che mentre erano in questo coma sentivano e vedevano tutto.

La stessa cosa con Massimiliano. Dopo essere uscito dallo stato vegetativo i fratelli lo hanno aiutato a muovere una mano fino a quando lui è stato in grado di ricordare l’alfabeto muto e così ha potuto esprimersi. Una sera, mentre guardavamo la tv, mise la mano sulla testa. Ti fa male la testa, chiesi? Lui tirò su il pollice per dire di sì, gli chiesi come mai e lui puntò le dita sulla tv per dire che era la tv a dargli mal di testa. Un giorno ha puntato il dito sul petto e ha detto: io vi sentivo e vi vedevo, ma non potevo fare niente. Tutti quegli anni chiusi in un corpo senza potersi esprimere.

Sembra di capire che siamo noi sani, noi parenti, a desiderare la loro morte, perché troppo faticoso e doloroso, invece queste persone vivono e desiderano vivere.

Avere a che fare con un figlio così è molto dura, non è una cosa facile. Io dico sempre: ricordiamoci che la prima cosa da fare è accettare. Ma se non accetti la situazione la vita diventa un inferno. Ed ecco perché c’è chi dice allora è meglio che se ne vada.

Lei però è una donna di fede. Cosa direbbe a chi non ha fede?

Quando succedono queste cose, ne ho viste di tutte, gente senza fede correre in chiesa a dire il rosario. Certo, la fede conta moltissimo. Quando vidi il corpo di mio figlio steso sulla barella dopo l’incidente, dissi dentro di me: Signore, cosa vi siete messi in testa Tu e Tua Madre? Era il 15 agosto, giorno di Maria e Massimiliano è nato l’8 settembre, ancora giorno di Maria. Ho detto soltanto: ho bisogno che mi diate la forza perché devo curare mio figlio.

Il nuovo caso che si propone in questi giorni ricorda quello di Eluana, è d’accordo?

Eluana non era attaccata a nessuna macchina, aveva il sondino come chiunque è ricoverato, ed era in condizioni molto migliori di mio figlio. Ho visto un filmato di una suora che la curava e si vede che era una bellissima donna assistita benissimo, che si capiva che non soffriva affatto. Con il signor Englaro abbiamo fatto alcuni incontri pubblici insieme e lui diceva sempre che non aveva mai accettato di vedere così sua figlia. Diceva sempre: la bambola rotta io non la voglio. Se non si accetta quello che accade e non si crede a quel che c’è in quel corpo, non si riesce ad andare avanti.

(Paolo Vites)