Quello dell’aborto è un tema così delicato che le polemiche sono all’ordine del giorno. Ci ha messo del suo Leyla Josephine con “I Think She Was a She“, poesia pro aborto. Il suo “slam poem” verte sul fatto che non ci si debba vergognare dell’interruzione di gravidanza, anzi, si debba andare fieri delle scelte fatte in difesa dei propri diritti. E poco importa se il prezzo per la difesa di quest’ultimi è la vita di qualcun altro. Secondo LifeNews.com, un’agenzia indipendente che si occupa di riportare notizie per la comunità pro-life, la canzone di Leyla Josephine è un inno all’aborto. Con questa poesia la ragazza ha voluto raccontare l’aborto e come viene vissuto da un’adolescente, talmente convinta di questo suo diritto da immaginare un monologo indirizzato alla figlia non nata privo di ogni minimo rimorso. La ragazza in questa poesia, racconta tutte le meravigliose cose che la sua bambina avrebbe potuto essere, ma che non sarà per il solo fatto che è arrivata «nel momento sbagliato». La ragazza aggiunge che sarebbe stata una madre protettiva e pronta a tutto per la sua bambina, ovviamente se questa fosse arrivata in altre circostanze.
Quindi afferma di non vergognarsi per la sua scelta, facendo una delle dichiarazioni pro-aborto più “rumorose”: «Avrei sostenuto il suo diritto di scegliere, di scegliere una vita per se stessa, un cammino per sé. Sarei morta per quel diritto, così come lei è morta per il mio». Ma come si può chiedere ad un figlio o a una figlia di morire per il diritto all’aborto? Non sono forse i genitori a doversi sacrificare per i loro figli e a fare tutto ciò è necessario – anche morire, appunto – per garantirne futuro e sicurezza? «Mi dispiace, ma sei arrivata in un momento sbagliato» è tutto quello che serve per giustificarsi. Sempre ammesso che giustificarsi sia importante per chi pensa: «Questo è il mio corpo. Non mi importa delle tue idee ignoranti. Diventerò madre quando sceglierò di esserlo».
E allora cosa ha spinto questa ragazza a comporre questa poesia per la sua bambina non nata? Tanto esibizionismo, voglia di provocare, forse quella che un tempo avremmo semplicemente chiamato “follia”. Oppure il tentativo, totalmente inconscio, di riaffermare – pur tardivamente e in modo surreale – che quell’altro, quella figlia che ha soppresso, non è solo un grumo di cellule, ma una vera e propria persona?