In chi si pasce delle illusioni della democrazia diretta, ci sono due sogni: la semplificazione del potere politico dello Stato fino a farlo governare dalla cuoca (come diceva uno che se ne intendeva, Lenin) e la celebrazione in piazza dei processi.

Si tratta, com’è evidente, di miti dall’enorme fascino presso un popolo ridotto a ciurma, a gregge. Non per allargare le maglie della democrazia, ma per strangolarla e serrare al collo del popolo un bel regime restrittivo dei diritti, cioè una democrazia autoritaria, anzi dispotica.



A Bologna i comunisti hanno governato per molti decenni, dopo il 25 aprile 1945. Nessuna cuoca è mai andata al di là delle feste de l’Unità, dove si cucinavano tagliatelle e strozzapreti (in Romagna). Il Pci ha creato una democrazia partitocratica su basi di massa. Il dato quantitativo è importante, ma non designa un valore, una differenza necessariamente positiva. Una volta conquistato il Comune, i post-comunisti si sono infilati in ogni spazio dello Stato e della società civile abilitando i bolognesi ai riti del conformismo ad un regime da partito unico (in forma consociativa, questa volta, rispetto al fascismo) come quello di fatto instaurato dopo la guerra civile di liberazione.



Sul piano giudiziario, l’esperimento della demolizione dello stato di diritto è ormai ad uno stadio avanzato. L’esponente di un gruppo di pressione (l’associazione dei familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980) ha spostato dalle aule del tribunale alle piazze e ai comizi oceanici il processo per accertare esecutori e mandanti.

La folla bolognese ha storicamente avuto un debole per i demagoghi, gli arruffapopolo, gli affabulatori. Il dirigente comunista più amato è stato uno dei meno significativi, dal parlare (fin troppo) schietto, cioè Giancarlo Pajetta.

Dopo la carneficina alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, per decenni dai microfoni in piazza si è lasciata rotolare la turgida menzogna secondo cui i governi in carica susseguitisi avrebbero posto il segreto di stato sulla strage del 2 agosto. Si è trovato un compagno lautamente pagato dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione, che da oltre trent’anni ha avuto la spudoratezza di propalare questa balla colossale. La “notizia” che il governo Berlusconi avesse esteso il regime del segreto di stato alla carneficina della stazione del capoluogo emiliano per i bolognesi avrebbe avuto il valore di una grande rivelazione, la fine di un grande mistero.



Poiché la macchina politica del Pci è stata straordinariamente potente (decideva l’occupazione, le carriere, eccetera di una quota importante della popolazione) né i partiti politici né la stampa hanno mai avuto il coraggio di contrastare questa magniloquente falsità. Mentire in pubblico al pubblico: questa livello di alterazione della verità non era mai stato raggiunto.

Ora siamo ad uno stadio più avanzato. Si intende abusare della disinformazione e della credulità della gente ancora frastornata e ferita da un delitto immane per accusare i magistrati della Procura di Bologna di non voler indagare e quindi di non voler punire i mandanti della strage del 2 agosto. Quindi di essere complici di chi ha seminato la violenza, anzi il terrore politico alla stazione centrale 37 anni fa.

La risposta del procuratore della Repubblica, per conto dei suoi collaboratori, è stata per la prima volta quella di un potere responsabile. Nelle sue parole, nel tono composto ma fermo si sente l’orgoglio e la dignità della propria indipendenza dal potere politico. In città abbiamo finalmente dei giudici che traggono dalla loro competenza, cioè da un’indiscussa professionalità, come dimostrano le sentenze finora emesse (anche quelle che a me a volte non piacciono o soddisfano parzialmente) il coraggio e la forza per non lasciarsi intimidire. 

Giuseppe Amato e i suoi giovani colleghi (i pm Enrico Cieri, Antonello Gustapane, Antonella Scandellari, Massimiliano Serpi) non debbono soffrire molto se il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, invece di tutelare il loro diritto alla discrezione, alla riservatezza, cioè la volontà di non celebrare in piazza i processi, di non farsi dettare e neanche suggerire le sentenze, li lascia denunciare al pubblico ludibrio. A farlo è un suo fraterno scherano di partito (sempre che si possa definire in questo modo una federazione di comitati e bande elettorali qual è il Pd).

Il procuratore capo di Bologna ha replicato al soi disant esponente dell’associazione dei parenti delle vittime con l’orgoglio di chi non si sente in ostaggio della politica (purtroppo degradata a ribalderia e aggressione). Piuttosto che lasciarsi vilipendere da un signore a libro paga degli enti locali, abituato a parlare da solo, incapace di reggere un dibattito ad armi pari, i magistrati hanno fatto sapere che non parteciperanno al rito del 2 agosto.

E’ quanto avrebbero dovuto fare in passato, e dovrebbero fare domani, ministri e rappresentati del governo. Ai gruppi di pressione, a chi ha imparato fin troppo lascivamente l’arte dell’insulto, della menzogna plateale, del ricatto ostentato, non ci si deve mai piegare. 

L’amministrazione della giustizia non può essere ridotta ad una spartizione, ad una trattativa tra chi ha il compito istituzionale di giudicare e chi deve essere giudicato.

Il procuratore Amato ha un compito in più da svolgere: pubblicare il “documento” storiografico, da archeologia di una suburra dell’ex impero stalinista, che l’associazione dei parenti delle vittime gli ha trasmesso anni fa, indicando i mandanti della strage, addirittura i finanziatori.

Che cosa di diverso dell’archiviazione avrebbe dovuto fare un organo giudiziario di fronte all’assoluta mancanza di prove e alla corposa sussistenza solo di invenzioni e ipotesi, per cui a collaborare all’esecuzione della strage e al correlato progetto di rivolgimento istituzionale violento della democrazia repubblicana sarebbero stati  Licio Gelli, Umberto Ortolani e il figlio Mario? 

Come si vede, sono sempre gli stessi che da decenni tormentano la pigrizia di una ricerca storica mediocre, di basso rango, che si nutre  spacciando ad ogni piè sospinto frammenti e cartuscelle di complotti, trame, disegni di destabilizzazione, anzi eversivi del nostro paese. Una catena infinita: l’imperialismo americano (ci si intende riferire, con questo lessico da tardo manuale bukhariniano, ai nostri liberatori dal nazi-fascismo), i suoi servizi segreti alleati al Mossad israeliano, Licio Gelli e compagnia, Gladio, la P2, Bettino Craxi, la massoneria, l’intelligence deviata, i fautori del regime presidenziale. E via strologando.

E’ il mondo culturalmente corrotto che popola molte delle pubblicazioni dell’editore Chiare Lettere. Ma è ormai una metastasi temo inarrestabile, che condanna all’autodenigrazione una parte importante della storia repubblicana.

Si tratta di quel pezzo del comunismo duro e puro che non si è rassegnato alla sconfitta. Non ha metabolizzato l’odio e l’indignazione dei popoli asserviti ai regimi di occupazione sovietici. Si illude di avere ancora una carta da giocare, facendo leva sulle sentenze compiacenti o ambigue estorte a magistrati deboli, ricattabili, incapaci o corrotti.

E’ inevitabile che a questa impostazione storico-politica fatta di cascami, ossessioni, rancori per carriere di notabili della vecchia nomenklatura spezzate e consulenze finte si debbano prestare le banche bolognesi? Con grande irresponsabilità hanno disposto il finanziamento di ricerche sulle stragi di Ustica e di Bologna fondate su questa mono-cultura stantia da guerra fredda. Non hanno previsto alcun controllo scientifico indipendente sulla qualità delle domande dei ricercatori. 

Chi decide l’assegnazione dei finanziamenti sono coloro che esercitano il controllo politico dei principali gruppi di pressione sui delitti di Ustica e Bologna. Da un docente universitario e dirigente di grandi istituti di credito come Fabio Roversi Monaco e i suoi collaboratori ci si sarebbe attesi meno noncuranza. 

A Bologna significa rimettere il potere di decidere nelle mani dei comunisti. Sono gli stessi che imbastirono, a livello locale e nazionale, una vere propria campagna diffamatoria sui trascorsi tra triangoli e compassi dell’ex rettore dell’ateneo bolognese.