NOTTE DI SAN LORENZO. Le stelle, signori, sono — e giustamente — prime donne, che non sopportano gregari che vogliano togliere loro lo spazio e la luce. Via le insegne e i lampioni, allora, via i locali e i rumori, via, se possibile, le angurie e le salsicce, via anche la musica e gli abbracci, via le mani dal telefono e dal corpo di un altro, via le app che ti dicono i nomi delle costellazioni e le parole degli amici. Tu e le stelle, in silenzio. A fare quello che così raramente facciamo: guardare. Guardare finché gli occhi non iniziano a vedere meglio, a mettere sempre più a fuoco, a contare sempre più stelle. Finché il cuore non inizia a desiderare lo stesso crescendo, di intensità, di visione, di presa. Perché non ha molto senso guardare le stelle senza che il movimento degli occhi susciti lo slancio del cuore che si rialza dalle solite, meschine questioni in cui ci rigiriamo, e si riaccorge di quell’infinito con cui siamo in distratto rapporto. Sotto quella lontananza ci scopriamo improvvisamente piccoli. Alla memoria riaffiora una novella di Pirandello, Sopra e sotto:



“Voi scherzate! Piccolo? Ma dentro di me dev’esserci per forza, capite? qualcosa di quest’infinito, se no io non lo intenderei, come non lo intende… che so? questa mia scarpa, putacaso, o il mio cappello. Qualcosa che, se io affiso… così… gli occhi alle stelle, ecco, s’apre, egregio professore, s’apre e diventa, come niente, piaga di spazio, in cui roteano mondi, dico mondi, di cui sento e comprendo la formidabile grandezza. Ma questa grandezza di chi è? È mia, caro professore! Perché è sentimento mio! E come potete dunque dire che l’uomo è piccolo, se ha in sé tanta grandezza?”



La grandezza del cielo ci troverà ottusi come una scarpa o un cappello o una foto? Le stelle ci chiamano a scoprire la grandezza dell’io, di un cuore a cui non basta niente, altrimenti rimangono belle di una bellezza estranea, come una canzone da applaudire prima della successiva, come un’emozione che non lascia tracce profonde. Se non ci sono nuvole, le stelle ci saranno: ma ci troveranno all’appuntamento? oppure annuvolati dalla solita piccolezza? “Ma le stelle sono piccole, piccole, se voi non le concepite grandi: la grandezza dunque è in voi!”. 

Questa grandezza, però, non è un dogma a priori, ma è ciò che vale la pena andare a scoprire: il vero spettacolo non è fuori, ma è il rapporto dell’io con ciò che sta fuori. Altrimenti che senso avrebbe scomodarsi per San Lorenzo? Chissà se la saggezza di Agostino, che rimbalzava dopo un millennio e mezzo davanti a Francesco Petrarca, continua a trovarci: “e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi”. Guardare le stelle è l’occasione — finalmente — per non trascurare noi stessi, per guardare quell’io “che ha qua, qua in petto, in sé la grandezza delle stelle, quest’infinito, quest’eternità dei cieli, l’anima dell’universo immortale”.



Davvero questa grandezza mette a nudo, spaventa. Con uno “sprazzo d’arcana poesie e d’arcana amarezza” Pirandello fissa questo tremore in un’altra novella, Notte: “In alto, tutto quel silenzio fascinoso era trafitto da uno sfavillio acuto, incessante di innumerevoli stelle, così vive, che pareva volessero dire qualcosa alla terra, nel mistero profondo della notte. I due seguitarono ad andar muti un lungo tratto su la rena umida, cedevole. L’orma dei loro passi durava un attimo: l’una vaniva, appena l’altra s’imprimeva. Si udiva solo il fruscio dei loro abiti”. 

In quel silenzio carico di mistero gli uomini si mettono a piangere, di un pianto che si strugge per l’universo intero: “Guardando entrambi nella notte, sentivano ora che la loro infelicità quasi vaporava, non era più di essi soltanto, ma di tutto il mondo, di tutti gli esseri e di tutte le cose, di quel mare tenebroso e insonne, di quelle stelle sfavillanti nel cielo, di tutta la vita che non può sapere perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire. La fresca, placida tenebra, trapunta da tante stelle, sul mare, avvolgeva il loro cordoglio, che si effondeva nella notte e palpitava con quelle stelle e s’abbatteva lento, lieve, monotono con quelle ondate su la spiaggia silenziosa. Le stelle, anch’esse, lanciando quei loro guizzi di luce negli abissi dello spazio, chiedevano perché; lo chiedeva il mare con quelle stracche ondate, e anche le piccole conchiglie lasciate qua e là su la rena”.

Per una volta, dopo tante chiacchiere da ombrellone e da pizzeria, il silenzio delle stelle e del mare può abbracciare le nostre domande e le nostre amarezze segrete. E certo, farci piangere, ma di un pianto abbracciato, non più solitario. Sotto le stelle quei “perché” tenuti in cuore li sentiamo corali, e perfino Dio, che si nasconde ai nostri occhi dietro la bellissima tendina trapuntata di stelle che ha calato nel cielo, sarà tentato di affacciarsi al di qua delle stelle. Ci vuole fortuna e sguardo fulmineo, per chi va a caccia di stelle cadenti, ma ancora più ce ne vuole per desiderare con le lacrime agli occhi l’attimo in cui si affaccerà, perché “l’abisso chiama l’abisso”.