La “ricetta” non è recente eppure solo negli ultimi tempi in America l’inversione della pillola abortiva, l’ormai celebre RU486, è tornata nelle cronache quotidiane per l’intervento del politico Repubblicano dello Stato dell’Indiana, Ronald Bacon, che ha promosso una legge per una maggiore informazione delle donne anche per le eventuali tecniche di “ripensamento” dopo l’aborto effettuato con pillola abortiva. La cosiddetta “inversione” della RU486 è una soluzione medica messa a punto dal dotto George Delgado assieme alla dottoressa Mary Davemport assieme al largo team di analisti e scienziati diretti dal dottor Matthew Harrison: secondo uno studio di due anni fa, con quella tecnica di inversione che qui sotto proviamo a spiegarvi nella maniera meno complessa possibile, almeno 215 bambini sono stati salvati e dunque messi al mondo con un repentino ripensamento delle madri che inizialmente avevano preso la pillola per abortire (la RU486). «Le donne dovrebbero almeno sapere che esiste la possibilità di tornare indietro e i medici abortisti dovrebbero almeno informare le future madri di questa eventualità», spiega Bacon, cattolico, dopo aver visto vincere la sua proposta alla Camera in Indiana con 54 voti a favore (41 i contrari). La pratica trova l’opposizione del Congresso Americano di ostetrici e ginecologi (ACOG) che ha più volte considerato “insufficiente la carica di prove mediche e scientifiche” per l’inversione dell’aborto tramite l’assunzione della sostanza progesterone; il dottor Delgado, come del resto lo stesso Harrison, hanno però rinnovato anche in questi giorni la promessa di altri dati e ultimi risultati nei prossimi mesi. «Abbiamo la prova che l’uso del progesterone per invertire gli effetti di un aborto di mifepristone è sia sicuro che efficace», afferma Delgado al Registro Cattolico Nazionale.
L’INVERSIONE DEL PROGESTERONE
Un medico del North Carolina ha salvato più di 300 bambini dall’aborto, dando alle loro madri la possibilità di rimediare all’assunzione della prima dose di RU 486: avviene dopo la scoperta del team di Harrison, Delgado e Davemport che negli scorsi anni hanno portato avanti la sperimentazione sul progesterone da assumere in dosi elevate dopo l’assunzione della prima pillola abortiva prevista dalle legislazione mondiale e americana per un aborto chimico (con RU 486). Va ricordato che l’aborto non naturale funziona nell’arco di tre giorni con la donna che non vuole diventare madre che deve assumere due pastiglie. La prima, il mifepristone, blocca la crescita del bimbo togliendoli la possibilità di nutrizione; la seconda, il misoprostol, innesca le contrazioni uterine necessarie per espellere il bambino morto difetto dopo un breve ma vero parto. Come ha spiegato LifeNews in uno speciale approfondito, «Il team del dottor Harrison ha scoperto che se le donne ricevono dosi elevate di progesterone poco dopo aver preso la prima pillola abortiva, l’azione bloccante sulla crescita del bambino viene neutralizzata»: non funziona una volta ingerito la seconda pillola, ma per chi si “pente” in tempo la possibilità di salvare il bambino è quantomeno un’ipotesi probabile, con gli studi che stanno continuando in America in un clima di ostilità profonda dai tanti media pro-aborto e pro-choice che reputano la sperimentazione di Delgado e Harrison “molto pericolosa”. Kathleen Eaton Bravo, fondatore delle Cliniche Mediche Obria e presidente della Fondazione Obria, ha detto al Registro Nazionale Cattolico che Obria fornisce il trattamento del progesterone alle donne che lo richiedono.
L’attivista americana è una madre post-abortiva e da molti anni ormai combatte quella battaglia da lei “persa” anni addietro: «se avessi avuto allora la possibilità di ripensarci, e l’informazione adeguata, probabilmente avrei potuto salvare quel bambino», racconta ancora Bravo al Registro Nazionale Cattolico, rivista Usa pro-lice. Ha poi aggiunto che mentre la piattaforma di telemedicina di Obria si espande in più stati, fornirà un altro meccanismo per le donne che cercano aiuto dopo aver preso la prima pillola per l’aborto. Giustamente, nel tentativo di combattere a fondo la “Planned Parenthood” ormai divenuta moda consueta negli States, la migliore prevenzione contro l’aborto farmacologico è «la costruzione di relazioni con le donne vulnerabili all’aborto, in modo che non finiscano mai a prendere la pillola dell’aborto come primissima scelta temporale». Ma lo studio del team Harrison ora potrebbe cambiare davvero i termini di questa lotta alla “pianificazione delle nascite”, provando a dare un’alternativa in più anche quando sembra che tutto sia stato deciso dalla prima scelta dolorosa di una madre e di un padre che optano per l’aborto.