ATTENTATO A BARCELLONA. Barcellona 17 agosto 2017, diciannovesimo attentato dell’Isis sul suolo dell’Unione Europea dal 7 gennaio 2015, giorno dell’incursione armata al settimanale satirico francese Charlie Hebdo. L’ennesimo con la metodologia del veicolo-killer inaugurata a Nizza nel terribile attacco del 14 luglio del 2016. Stesso rito, stesso modus operandi, stessa rivendicazione postuma del sedicente stato islamico che ancora una volta punta su lupi, più o meno solitari, addestrati dalla propaganda e da soggiorni non meglio definiti all’estero. Il sussulto è ancora una volta un fremito che inizialmente scuote le coscienze: la notizia si sparge sulle spiagge, le famiglie si telefonano e si informano reciprocamente, i social commentano.
Ma il tutto ha una durata progressivamente sempre minore: ci si informa, si cerca di capire, se ne parla e poi, nel giro di qualche ora, tutto torna come prima. Le analisi non servono quasi più, la gente ormai sa e si è fatta un’idea del mix tra radicalismo islamico e nichilismo occidentale che è sotteso a queste azioni. Quello che preoccupa è il clima di assuefazione, la velocità di assimilazione da parte delle coscienze di quella che è diventata una vera e propria guerra la cui fine è difficile da prevedere.
La comunità islamica europea ha un enorme problema: spezzare in modo chiaro e inequivocabile, con azioni anche di autodenuncia, la propria continuità ideologica e religiosa con le frange più estremiste. Gli Stati dell’Unione hanno forse un problema maggiore: sono ormai solo gli attentati, l’immigrazione e le schermaglie sul Pil a tenere viva la consapevolezza che l’Europa è un’entità culturale, sociale e politica unitaria. Nulla di più. Esiste un aggressore, ma non esiste — di fatto — un vero aggredito. Come se in una famiglia di separati in casa si alternassero fortune avverse senza che, appunto, la famiglia esista più.
E poi, in ultimo, tutti noi abbiamo un problema: la conta dei morti, la solidarietà, le candele, i cortei non bastano più. Ci siamo abituati all’orrore e alla morte, viviamo cercando di sopravvivere. Il turismo italiano ne sa qualcosa in quanto cinico beneficiario stagionale di una fama di “sicurezza” che nessuno può dire quanto reggerà all’urto della follia omicida dei terroristi. In questo complicato puzzle viene quindi meno lentamente l’opinione pubblica, le sue sollecitazioni e le sue necessità di capire. Restano infine a terra una scia di corpi e di lutti. Sempre più privati e sempre meno “di tutti”.
È difficile ammetterlo, ma emotivamente, psicologicamente e umanamente stiamo accettando tutto questo come possibile, come probabile. Da oggi forse abbiamo più chiaro che tutto può accadere, anche la morte, anche il terrorismo. Purché non ci disturbi troppo. Purché tutto venga ripulito in fretta e domani si possa ricominciare. A far finta di niente. Tra non molto verrà il tempo delle discussioni. Adesso quello che prevale è un’insolita amarezza per interi popoli che lentamente stanno abdicando al proprio dovere di essere umani. E nemmeno se ne accorgono.