Non è la prima volta che a Casamicciola un terremoto porta distruzione. La scossa più forte che l’uomo ricordi nel territorio appartenente all’isola d’Ischia risale al 28 luglio del 1883, quando il sisma raggiunse una magnitudo di 5.8 sulla scala Richter. Morirono oltre 2000 persone e tra queste vi furono anche la mamma, il papà e la sorella di Benedetto Croce. Filosofo, storico, critico letterario di eccezionale livello, Benedetto Croce quel terremoto pauroso lo descrisse con dovizia di particolari nel “Contributo alla critica di me stesso del 1915″. Ricordava, un attimo prima dell’arrivo della devastazione, il padre intento a scrivere una lettera, la madre e la sorella una vicina all’altra a discutere e poi il rombo. Il rumore della morte:” Vidi in un baleno mio padre levarsi in piedi e mia sorella gettarsi nelle braccia di mia madre; io istintivamente sbalzai sulla terrazza, che mi si aprì sotto i piedi, e perdetti ogni coscienza. Rinvenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò che era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina, fui cavato fuori da due soldati e steso su una barella all’aperto“.



“BRAMAI DI NON SVEGLIARMI”

Il racconto di Benedetto Croce è sensazionale. Per capacità di descrivere le emozioni di un ragazzo che ha visto spazzare via la famiglia. Per la sincerità con cui l’intellettuale ammette il rimorso di essersi salvato, lui solo, dal terremoto che gli ha portato via tutti i cari:”Io m’ero rotto il braccio destro nel gomito, e fratturato in più punti il femore destro; ma risentivo poco o nessuna sofferenza, anzi come una certa consolazione  di avere, in quel disastro, anche io ricevuto qualche danno: provavo come un rimorso di essermi salvato solo tra i miei, e l’idea di restare storpio o altrimenti offeso mi riusciva indifferente(…). Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio“. 

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