Di fronte ai morti (due), ai feriti (39) e agli sfollati (2.600) non c’è nulla di più antipatico che fare la predica. Eppure nel caso del terremoto a Ischia, località Casamicciola, le ragioni ci sarebbero tutte per distribuire rimproveri a destra e manca. Come giustificare altrimenti che un movimento della terra classificato di quarto grado sulla scala Mercalli, e dunque lieve, possa aver combinato il disastro al quale abbiamo dovuto assistere?
Che quello fosse un territorio a rischio era risaputo. E infatti tutte le cronache riportano il ricordo del famoso e famigerato sisma del 1883 che rase letteralmente al suolo il piccolo comune isolano inghiottendo tra i tanti anche i parenti di Benedetto Croce e Giustino Fortunato in persona, che tanto aveva tuonato contro lo sfasciume urbanistico del Mezzogiorno e pertanto pure della ridente, fino a prova contraria, località balneare.
Altrettanto risaputo era che la qualità delle costruzioni, senza generalizzare ma di certo in gran parte, non fosse delle migliori. Non è la prima volta infatti che di fronte a un evento della natura – la scorsa volta si trattò di un’alluvione – qualche abitazione è destinata a crollare e più di una vita a spegnersi. Conseguenza della fretta e dell’approssimazione che derivano dalla necessità di costruire di nascosto perché senza permesso.
Tempi accelerati per l’abusivismo, manufatti scadenti, caratteristiche geologiche dei luoghi sono elementi sufficienti a far ritenere un miracolo che le cose nel tempo non siano andate peggio: per il disappunto dei buontemponi che hanno avuto lo stomaco di scrivere in rete, in disprezzo dei napoletani. Speravamo nel Vesuvio, ma va bene anche così. Il danno e la beffa per un popolo che ha fatto dell’arte di arrangiarsi un codice di vita.
Non a caso proprio in Campania il governatore De Luca sta combattendo con il ministro Delrio per difendere la propria legge che distingue tra abusi di speculazione e abusi di necessità nel tentativo di salvare questi ultimi dalle ruspe che il governo avrebbe intenzione di azionare per radere al suolo quello che non andava edificato. Questa sciagura sarà ora un ostacolo ulteriore al raggiungimento di una, semmai, possibile intesa.
Il fatto è che l’eccesso di vincoli e burocrazia – di cui tutti sono oggi consapevoli, ma che nessuno riesce davvero a contrastare – è un propellente formidabile e fornisce anche un alibi culturale per chi, già allergico di suo al rispetto delle regole, decide di passare all’azione senza sottostare alle forche caudine di un’amministrazione vissuta come occhiuta nemica e avida divoratrice di risorse. Chiedere una licenza, in questi casi, è tempo perso.
E allora al di là dei risvolti di cronaca che nella loro logica e sequenza si somigliano un po’ tutti -compreso l’eroismo di chi scava nelle macerie e salva vite o l’altruismo dei medici in vacanza che apprestano volontariamente le prime cure – bisognerebbe fare finalmente di necessità virtù e uscire dall’ambiguità di un rapporto così fragile tra la norma e il suo rispetto, il bisogno e l’azzardo, che basta uno starnuto a provocare una tragedia.