ATTENTATI A BRUXELLES E A BUCKINGHAM PALACE. E’ nel vuoto culturale e di senso in cui vive l’Europa che trova humus fertile il nichilismo amante della morte dei terroristi di Barcellona, di Londra, di Berlino, di Nizza, del Bataclan come di quelli che vengono ormai compiuti continuamente nelle maggiori città europee (due attentatori sono stati fermati ieri a Bruxelles e Londra).
A questo si aggiunga la lenta, ma inesorabile tendenza delle istituzioni, dei media, della politica dell’occidente sempre più incline a relegare il fatto religioso alla sfera privata, espellendolo dalla sfera pubblica. Perché tanti giovani inseguono la morte? “Noi amiamo la morte come voi amate la vita”: così affermò Bin Laden, e così hanno ripetuto molti jihadisti omicidi e suicidi. Perché uno diventa fondamentalista? Al Meeting di Rimini è intervenuto su questi temi uno dei più grandi esperti di medio oriente e di islam: Oliver Roy, copresidente del Rscas e del dipartimento di scienze sociali e politiche dell’Istituto universitario europeo di Firenze.
“Il tema del fondamentalismo religioso è ricorrente, ma l’associazione del terrorismo e del jihadismo con la ricerca deliberata della morte è del tutto nuova, è cominciata verso la fine degli anni 90” sottolinea Roy. Per capire il fenomeno bisogna osservare bene chi sono i fondamentalisti in Europa e, secondo gli studi recenti fatti in Francia e in Belgio, la maggioranza sono di seconda generazione, figli di immigrati nati in Europa, con lingua europea come lingua madre. Molti sono di origine marocchina, molti meno sono turchi. Il 25 per cento sono europei convertiti. Si tratta di un gruppo molto preciso di immigrati che non hanno una formazione religiosa. Nessuno di loro ha un passato di militante religioso e politico. A livello sociale sembrano senza particolari appartenenze. Spesso hanno un lavoro e in Francia il 50 per cento ha un passato di piccola delinquenza. Sono tutti immersi nella cultura giovanile occidentale contemporanea (stessa musica, stessi vestiti, film, videogiochi).
“In loro — afferma Roy — accade una vera e propria rottura generazionale: rimproverano ai genitori di essere cattivi musulmani. Accade pertanto una sorta di inversione generazionale: i figli vogliono salvare i genitori e poi spesso quando vanno in Siria a formarsi fanno figli: rifiutano l’eredità dei padri e rifiutano di lasciare un’eredità. Sono nichilisti, iconoclasti: non distruggono solo le chiese, ma anche le moschee. Rifiutano la storia e anche la cultura. Quasi sempre si fanno uccidere durante le loro azioni. La morte è infatti al cuore del loro progetto. Il cuore attrattivo non è né religioso, né politico, ma nel fascino della violenza e della morte tipico dell’Isis: sono nichilisti e apocalittici”.
Ma la domanda è: cosa dice tutto questo alla società occidentale contemporanea? Quello che ci fa paura è il fatto che sono persone che amano la morte. “C’è un legame — aggiunge lo studioso — tra nichilismo e de-culturazione, cioè l’allontanamento della religione dalla cultura. Se sui valori tra illuministi e cristiani c’era molta vicinanza (il conflitto era per il potere, non sui valori) dagli anni 60 la cultura europea ha vissuto l’allontanamento dai valori cristiani. Vince una cultura dominante secolare. Non solo in occidente, ma anche, ad esempio, in Egitto. La conseguenza è quello che chiamo la santa ignoranza. I laici non sono anticlericali, né antireligiosi, ma non capiscono come essere credenti. I credenti ritengono che la cultura dominante sia pagana e sia una minaccia. Di qui la conseguenza dell’affermarsi della convinzione di espellere il religioso dalla convivenza civile e relegarlo nel privato. Qui si trova il terreno fertile dei fondamentalisti che vogliono riconquistare il mondo perduto o disfarsene”.
Se anche l’Isis fosse sconfitto definitivamente non sparirebbe la seduzione nichilista per la quale questi giovani abbracciano il jihad e la morte. Di fronte ad un’analisi del genere cosa si può fare? Una cosa sembra certa: non sono le pubbliche istituzioni che devono riformare l’islam. Certamente hanno compiti riferiti al garantire la sicurezza. Ma la partita si gioca su ben altri piani.
“La sfida — conclude Roy — è sul piano culturale e religioso. Si dice che bisogna riformare l’islam: questo è fuorviante. I radicali non hanno letto male il Corano, hanno trovato nel Corano quello che volevano. Ricordiamoci che la teologia non è al centro della religione. Il credente vero non è teologo. Nessuno si converte per la teologia. Ciò che vale per il credente è la propria fede, chi la testimonia a lui, come la trova e la arricchisce o viceversa. Il punto centrale è promuovere e rafforzare spazi reali di religiosità autentica. Il cristianesimo è una religione ed esprime una cultura universale e così l’islam. Quindi vanno posti luoghi di dialogo vero”.
A tal riguardo interessante è l’esempio fatto del parroco di Vienna che si accorge che la metà dei residenti nella sua parrocchia sono turchi e che varie moschee sono state aperte. Cosa fa? Impara il turco e va alla facoltà teologica musulmana di Ankara a studiare l’islam. Al ritorno dopo un anno fa una proposta: proporre agli imam che non sanno il tedesco e che vengono in Austria un soggiorno in un monastero cattolico in Tirolo. E sta avendo un grande successo: gli imam conoscono il cristianesimo e la relativa spiritualità e viceversa i cattolici, promuovendo di fatto un reale dialogo, una stima e un rispetto reciproci, senza il venir meno, anzi rafforzando le loro specifiche identità.
Quindi servono ponti, non muri che separano, dialogo tra identità forti, testimoni autentici, educazione, libertà religiosa. Una strada certamente impegnativa, ma vitale per il nostro futuro e rispetto alla quale ognuno, come il parroco viennese, deve assumersi la sua parte di responsabilità.