Chi ne fa la linea del Piave, chi lo usa politicamente, chi spera che finisca su un binario morto. La cosa giusta al momento è sbagliata: così ha definito lo ius soli il ministro degli esteri Alfano al Meeting di Rimini. Un provvedimento che Renzi continua a volere ad ogni costo, Repubblica anche. Il Papa, invece, è stato tirato per la giacca, spiega mons. Silvano Maria Tomasi, nunzio apostolico e membro del dicastero della Santa sede per il servizio dello sviluppo umano integrale. Ad arruolare papa Francesco nel partito dello ius soli era stata Repubblica, il giorno della pubblicazione del Messaggio pontificio per la Giornata delle migrazioni 2018.



La Chiesa ha una sua posizione sullo ius soli?

Ogni Paese si sceglie la forma giuridica per concedere la cittadinanza secondo le sue tradizioni e preferenze. Alla Chiesa interessa che il rispetto dei diritti politici e civili di ogni persona e la partecipazione nella vita pubblica siano garantiti. Per gli immigrati, ricevere la cittadinanza del Paese ospitante può diventare un diritto quando l’immigrato vi risiede in maniera legale e permanente e contribuisce al bene nazionale. Più che all’aspetto strettamente giuridico, però, la Chiesa guarda alle sue responsabilità di voce etica nell’arena pubblica e alle conseguenze pastorali delle leggi che vengono fatte.



Come giudica il dibattito italiano sul tema della cittadinanza?

Nel dibattito corrente in Italia, qualche partito pesca nel torbido della paura e della mancanza di informazione della gente per servirsene nella sua scalata politica. Viene usata la proposta di legge di dare un limitato accesso alla cittadinanza con il principio dello ius soli, non come una strada per integrare delle persone e delle famiglie che di fatto sono già parte dell’economia e della vita italiana, ma come strumento per esacerbare le relazioni sociali e trarne profitto. 

E la Chiesa cosa dice?

La posizione della Chiesa è la solidarietà verso chi si trova ai margini della società e deve divenirne parte attiva e responsabile per rispetto alla sua dignità di figlio di Dio. Il Messaggio pontificio per la prossima Giornata delle migrazioni fa riferimento esplicito al diritto di avere una cittadinanza e si riferisce direttamente ai quasi dieci milioni di apolidi nel mondo, specialmente tenendo presente che nei campi profughi per tanti bambini che nascono non c’è adeguata documentazione che ne garantisca l’identità.



È una posizione valida per tutti i Paesi o va adattata caso per caso?

Le politiche di immigrazione sono gelosamente riservate ai parlamenti nazionali. Come principio applicabile in generale, direi che quando gli immigrati si sono sistemati nel loro nuovo contesto, intendono rimanervi in maniera stabile, e contribuiscono con il lavoro, le tasse, la loro presenza, al benessere del paese ospite, il passo successivo da fare è quello di inserirli nella comunità politica   attraverso la cittadinanza. Per il momento di intervenire contano le circostanze locali. Per questo la Chiesa parte dall’esperienza delle comunità e dei paesi del mondo e parla per tutti senza dettare soluzioni immediate operative. Per esempio, il recente messaggio di Papa Francesco per la Giornata dell’emigrazione non è diretto ad un paese, come qualche giornale ha interpretato, ma propone una serie di misure pratiche che la comunità internazionale può prendere in considerazione nella preparazione della Conferenza delle Nazioni Unite sulle migrazioni nel dicembre 2018.

Può aiutarci a capire la preoccupazione espressa dal Papa nel messaggio per la Giornata dei migranti?

Anzitutto il Messaggio del Papa si deve leggere dentro il quadro della dottrina sociale della Chiesa che ha sviluppato, come esperta in umanità, una visione comprensiva del fenomeno migratorio. Diritti e doveri riguardano sia gli  immigrati come la popolazione che li accoglie. Data la posizione di marginalità di apolidi, rifugiati, richiedenti asilo, di migranti, la loro protezione diviene più urgente. Il figlio più debole richiede più attenzione. Papa Francesco ha fatto delle migrazioni una delle sue priorità per questa ragione. 

Gli sbarchi dai Paesi Nordafricani a quelli dell’Europa meridionale sono un’emergenza permanente. Come dovrebbe comportarsi la comunità internazionale?

La comunità internazionale non può rimanere indifferente e non può lasciare l’accoglienza solo alla Grecia o all’Italia, ma deve intervenire a vari livelli sia favorendo lo sviluppo integrale nei paesi di origine sia attuando una solidarietà concreta nell’accoglienza. L’Unione Europea deve calcolare che per ragioni demografiche e di diseguaglianze economiche i flussi dal Sud del mondo continueranno ad arrivare. Il rimedio non sta in polveroni polemici ma in una preparazione sistematica che affronti le cause alla radice e accetti uno stile di vita più sobrio, in modo che tutti possano partecipare dei beni di questa terra che è la nostra casa comune.