La situazione in Birmania è più grave di quanto si pensasse nei mesi scorsi nella comunità internazionale: la persecuzione contro la minoranza islamica dei Rohingya è sempre più aspra e crudele da parte delle autorità di Myanmar. Addirittura Papa Francesco nell’Angelus andato in scena ieri a mezzogiorno ha rivolto un appello mondiale contro la persecuzione dei Rohingya e delle altre minoranze distribuite tra Birmania, Bangladesh e India. Nel Paese guidato dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi (a sua volta perseguitata dalla precedente dittatura birmana, poi eletta primo ministro dopo il ritorno del potere democratico) le forze governative hanno dato il via alla repressione di gruppi legati alla minoranza musulmana di etnia Rohingya, Il problema è che non sono scattate azioni punitive contro i militanti Rohingya ma contro l’intera etnia e popolazione, in una sorta di inquietante “pulizia” etnica che è tutto il contrario del sogno democratico e di pace dell’attuale primo ministro. Ma è proprio San Suu Kyi ad essere finita sotto il banco degli imputati internazionali per il “silenzio” e l’apparente connivenza con questa ultima fase repressiva del Governo di Myanmar.
Accusata di avere una “doppia personalità”, la presidente e ministro degli Esteri non vive il suo miglior momento di consenso internazionale dopo aver vinto il Nobel per la Pace solo qualche anno fa: diversi gruppi umanitari e ONG hanno già accusato Aung San Suu Kyi di legittimare il genocidio e gli scontri che ogni giorno vanno in scena tra esercito tra forze birmane e milizie dell’Arsa (esercito Arakan per la salvezza dell’etnia perseguitata) confermano l’emergenza mondiale. I Rohingya scappano verso il Bangladesh che però non ha ancora deciso se accettarli o perseguitarli a sua volta: per questo l’Onu dovrà al più presto mettere in agenza la grave crisi birmana che purtroppo coinvolge chi per anni è stata vista dal larga parte dell’Occidente come il simbolo della pace e prosperità in un popolo per anni sotto la dittatura e influenza della Cina.
L’APPELLO DI PAPA FRANCESCO E LA VISITA “A SORPRESA”
«Sono arrivate tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa dei nostri fratelli Rohingya – le parole di Papa Francesco a San Pietro ieri durante l’Angelus -. Vorrei esprimere loro tutta la mia vicinanza. Tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà perché li aiutino e perché tutti i loro diritti siano rispettati». L’appello del Papa è talmente forte che oggi, probabilmente non a casa, arriva la conferma del viaggio apostolico di Francesco proprio a Myanmar e Bangladesh dal 27 novembre fino al 2 dicembre prossimo. «Accogliendo l’invito dei rispettivi Capi di Stato e Vescovi, Papa Francesco compirà un Viaggio Apostolico in Myanmar dal 27 al 30 novembre 2017, visitando le città di Yangon e Nay Pyi Taw, e in Bangladesh dal 30 novembre al 2 dicembre 2017, visitando la città di Dhaka», sono le parole pubblicate oggi dalla Sala Stampa Vaticana, diretta da Greg Burke. Il Pontefice si precipita in Birmania in un momento gravissimo di crisi dove lo stesso potere legittimato dall’occidente è coinvolto in un odioso “doppiopesismo”: «contraddizione nell’usare due pesi e due misure quando si tratta di tutelare le minoranze e difendere i loro diritti.
Gli stessi per i quali Aung San Suu Kyi fu costretta a 15 anni di arresti domiciliari e di carcere», scrive il Giorno in un lungo reportage sulla situazione birmana. La situazione è assai complessa, ma i fatti restano: la Suu Kyi non ha ancora speso una parola per lo scempio di questa persecuzione, anzi ha criticato gli assalti dei Rohingya alle sedi delle forze dell’ordine senza mai menzionare le azioni durissime dell’esercito. La pulizia etnica in effetti mal si addice con un premio Nobel e una dura transizione democratica dopo anni bui, e il rischio di una escalation di violenze anche nei prossimi mesi mette a serio rischio l’appoggio dell’occidente al Governo di Myanmar. O meglio, “dovrebbe” metterlo a rischio se la presidente Premio Nobel non dovesse a breve intervenire per fermare immediatamente le violenze contro una minoranza etnica (di qualsiasi religione o cultura si tratti, ndr), spendendosi pubblicamente per la difesa di quegli stessi diritti per cui è divenuta presidente del piccolo stato asiatico. In questo senso, l’indirizzo della diplomazia vaticana sembra già orientato e ha fatto più in due giorni per i Rohingya che non l’intera amministrazione del Nobel per la Pace in questi anni…