Leonardo Pieraccioni si lamenta di sua figlia usando i social media: “Babbo — mi ha chiesto seria mia figlia — ma se io da oggi faccio tutto quello che mi dici, tu mi potresti pagare? La risposta doveva essere un tenero calcio nel c..o alla Chinaglia e invece mi è pure scappato da ridere”. L’analisi è triste ed è un appello a maggior severità… ma salta un passaggio: che i figli vivono di quello che vedono e non di quello che sentono, seppur sul loro augusto sederino. Quindi la prima domanda è: che cosa gli facciamo vedere?



Come insegna Dante Alighieri, tutto il problema della salvezza personale è un problema di vedere: non a caso nel suo percorso salvifico chiamato Divina Commedia, i verbi più usati sono “vedere”, “guardare”, “rimirare”. “I bambini ci guardano” è un film di Vittorio de Sica, che racconta proprio questo, che le belle parole non servono a nulla a fronte dei fatti che i bambini vedono. Non siamo noi i primi a prendere poco sul serio gli impegni, a pensare che tutto si compra? I figli “non ci appartengono”, non li realizziamo così come fossero Pinocchio secondo un progetto a tavolino, per questo è inutile pensare a fallimenti se le cose non vanno bene o a miracoli se si hanno figli soddisfacenti. Tuttavia il nostro “lavorare con” i figli non è invano, perché crescono non per un banale buon esempio forzato e falso, ma con il “riflesso esemplare” della nostra adesione a qualcosa (sta a noi decidere a cosa): i figli sono intelligenti, cioè sanno “leggere dentro” oltre le parole. E cosa leggono? Che siamo non incoerenti (chi è coerente?) ma piuttosto soddisfatti di non essere coerenti; non tanto legati a criteri consumistici (chi è libero dalla pressione pubblicitaria sempre e comunque?) ma contenti di essere consumisti. Cosa ci aspettiamo che ne venga fuori?



Insomma, la cura dei genitori precede la cura dei figli. E i genitori vivono immersi nel loro mondo, che è il mondo della paura e dello scarto, in cui tutto segue queste due categorie. Per educare i figli, cioè per permettere loro di avere uno sguardo positivo sulla realtà, dovremmo averlo noi. Ma lo abbiamo? Nell’epoca del figlio perfetto che deve compiere i sogni frustrati dei genitori, che pressione sente il ragazzo su di sé, che maschera deve mettersi costantemente per mostrare di essere al passo con le attese di papà o della società?

L’adolescente per motivi fisiologici cerebrali non può avere un senso di razionalità come un adulto, ma sarà portato più a cercare esperienze apparentemente gratificanti, e nessun richiamo razionale o punitivo lo porterà ad avere il buonsenso che si acquisisce solo col tempo. L’unica cosa è domandarsi “cosa vede fare a me?”. E’ troppo facile pensare di risolvere i problemi educativi “lasciando fare alla natura” come vorrebbero i pedagogisti alla Rousseau, che però dimenticano che se il bambino ha delle potenzialità buone, c’è molto dentro e fuori di lui che lo tira verso il basso. E troppo facile è anche tornare ad una severità che nei tempi moderni è facilmente aggirabile, e non ha mai risolto niente.



Il punto educativo è semplice, però: è capire la differenza tra “buon esempio” e “riflesso esemplare”; il primo è un atteggiamento forzato, mentre il secondo è solo il “trasudare” un atteggiamento spontaneo, che diventa visibile e condivisibile. Il “buon esempio” è un vuoto che si cerca di riempire forzosamente di buoni propositi e alla fine di sberle; il “riflesso esemplare” è una vita piena di significato, che l’io riflette all’esterno e che per sua natura diventa esempio per gli altri. 

La cura dei genitori deve precedere la cura dei figli: a cosa tengo davvero? Cosa vede fare a me? Quanto è alto umanamente ciò cui guardo? Un ragazzo che percepisce che il padre si fa queste domande ogni tanto già avrebbe ricevuto il miglior viatico educativo possibile. Come scriveva Giorgio Gaber: “Non insegnate ai bambini/ ma coltivate voi stessi il cuore e la mente/ stategli sempre vicini/ date fiducia all’amore il resto è niente”.