Del cardinale Tettamanzi ho un ricordo forte, indelebile. Ho avuto modo di incontrarlo personalmente, di condividere con lui molti momenti importanti della mia vita di uomo e di prete. A partire da quando, nel 2007, mi nominò maestro della cappella musicale. Ma soprattutto quando accettò l’invito a venire nel carcere minorile “Beccaria” di Milano, in occasione della presenza dell’urna contenente la reliquia del corpo di san Giovanni Bosco, il santo dei ragazzi.
Fu un’occasione particolare, che porterò sempre con me. E quando penso all’arcivescovo emerito, le immagini che ho di lui sono di quel giorno, seduto con i giovani detenuti. Il cardinale non solo accettò immediatamente l’invito. Non solo — e non è poca cosa, anzi — celebrò una messa all’interno dell’istituto penale, nella quale battezzò e cresimò alcuni giovani. Ma soprattutto, si mise in ascolto. Come scrisse più tardi in un articolo dedicato a quella giornata trascorsa insieme, “sono convinto che il bisogno più forte che sta in fondo al cuore di tutti sia quello di essere ascoltati. Solo l’ascolto fa della successiva parola una risposta, gradita o meno, e comunque un ‘dono’ che invita a non sottrarsi al dialogo”.
Negli anni seguenti ho sempre pensato che in quella occasione fosse emerso il cuore pulsante del carisma di Dionigi Tettamanzi. La capacità di mettersi in ascolto della realtà, fino agli ultimi che ne fanno parte: i più feriti, i più deboli, proprio come quei giovani di allora.
La misericordia cambiava, evidentemente, il punto di vista. Fu lo stesso arcivescovo a scrivere che non si era sentito affatto estraneo, ma addirittura “uno di casa, in famiglia, tra amici, tra persone che sanno guardarsi negli occhi, scambiarsi parole con sincerità”. Quel giorno seppe entrare immediatamente in dialogo con chi lo ascoltava, con chi gli poneva domande, su di sé, sul presente e sul futuro. Volle innanzitutto ascoltare i giovani, più che esser lui a parlare e interloquire. Poi però parlò anche lui, e la parola più ricorrente fu ” speranza”. Una speranza di cui abbiamo bisogno “più del pane che mangiamo, più dell’acqua che beviamo, più dell’aria che respiriamo”.
Senza speranza di muore!, disse con veemenza. Era vero, allora come oggi. Sapeva che in un modo o nell’altro la vita di quei giovani non finiva lì, da lì poteva solo ripartire per un viaggio migliore. Si soffermò sulla parabola che tutti chiamiamo del “figliol prodigo”, ma ne spostò l’accento, facendone la parabola del “Padre misericordioso”. Sì, perché ad essere prodigo è il padre, sovrabbondando di misericordia e di perdono. Il Signore — disse il cardinale Tettamanzi — è il Padre che ama, per questo sta sempre in attesa del nostro ritorno a casa, dopo i momenti di smarrimento.
Mise l’accento sul padre e aveva ragione: oggi i padri, più che preoccuparsi di loro, dei figli, devono occuparsi di loro. Era un altro tipo di attenzione, di vicinanza, di affetto. Più simile ad un abbraccio, al silenzioso dono di sé, che ad un insieme di premure, di sollecitazioni materiali.
Rimasi sorpreso quando, incontrandoci in occasioni successive, mi chiese di nuovo come stessero i giovani del Beccaria che aveva incontrato quel giorno. Era un gesto di paternità reale. Come si ricordava di quei ragazzi, era attento alla mia vita di prete; chiedeva, voleva sapere.
Tettamanzi è stato un padre anche per me. Come sempre, è quando un vescovo viene a mancare che tu — figlio spirituale — erediti realmente. Proprio come si eredita da un padre. Si può “lasciare in eredità”, ma si possiede il lascito ereditario solo dopo la morte di chi ce lo ha lasciato. Fino a che uno è presente lo si cerca, lo si ascolta, lo si segue, lo si osteggia, ma poi ciò che realmente rimane — la sua parola, la sua testimonianza — è realmente tale solo dopo la sua morte.
E allora, da oggi in poi inizia anche per me il possesso dell’eredità del cardinale Tettamanzi. Anche e soprattutto a partire da quella giornata, nel carcere Beccaria di Milano. Oggi non basta essere genitori, occorre essere padri. Padre è l’adulto-adulto, l’adulto vero, capace di una attesa, di uno sguardo e di un abbraccio come quello che avvenne quella volta, su quella soglia. Tettamanzi è stato padre perché ha saputo raccogliere l’eredità di Carlo Maria Martini innestandovi il proprio carisma e tracciando una strada, proseguita fino a Scola: la capacità di entrare nella realtà, di farla nostra, di viverla a contatto con le debolezze e le sofferenze della gente. Un amore al popolo di Dio che — oggi possiamo dirlo — ha anticipato in modo profetico il pontificato di Papa Francesco.