Massimiliano Parente è stato cacciato da Facebook: lo scrittore e giornalista non può accedere al noto social network perché il suo account è stato bloccato. La notizia però è un’altra, e riguarda le ragioni per le quali non può utilizzare il suo profilo. Dopo aver scritto che «le donne possono vestire come vogliono, ma devono sapere che un abbigliamento provocante può rappresentare uno stimolo allo stupro» e che «la rieducazione efficace è la castrazione chimica» è intervenuta la mannaia della censura. Così Massimiliano Parente ha preso carta e penna, si fa per dire, e ha scritto a Dagospia. Comincia attaccando Facebook, «quanto è ignorante, e fascista anche». Nel suo post aveva precisato che l’abbigliamento provocante non deve diventare un’attenuante in sede giudiziaria, inoltre aveva spiegato le ragioni scientifiche a sostegno della castrazione chimica come unico provvedimento efficace per far scendere la percentuale di recidività. Così dunque lo scrittore si ritrova con l’account inibito: può solo guardare, ma per condividere i suoi pensieri deve aspettare tre giorni.



“STUPRO? CE L’ABBIAMO NEL DNA”

Il fatto è, per Massimiliano Parente, che quanto scritto non è una sua idea ma risultato di studi sulle ricerche scientifiche condotte negli Stati Uniti. E cita una parte della bibliografia: dallo scienziato Steven Pinker alle femministe Camille Paglia e Wendy McElroy. Dalle ricerche si evince un altro aspetto importante dello stupro: «Ce l’abbiamo nel Dna». Questo però non significa giustificarlo: «Al contrario, casomai adottare pene più dure, perché combattere contro la natura è molto più difficile che lottare contro delle culture». Per Massimiliano Parente non si può andare avanti con il mito del buon selvaggio e della Tabula Rasa, secondo cui la natura buona viene corrotta dalla civiltà: «In generale siamo prigionieri delle opinioni basate sull’ignoranza e sui tabù, dove ognuno dice la sua, la dittatura dei “secondo me non è così”». Facebook, o meglio il suo algoritmo, ha deciso di inibire lo scrittore dopo le segnalazioni ricevute, costringendo così lo scrittore a rivolgersi a Dagospia per spiegare il messaggio che aveva condiviso e che aveva fatto scoppiare il caso.

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