ALLUVIONE LIVORNO. Il quadro che si va dipingendo sulla tela di questo primo scorcio d’autunno era, almeno a livello nazionale, altamente prevedibile: mesi interi di siccità e di temperature al di sopra della media hanno lasciato spazio a precipitazioni eccezionali il cui epilogo è spesso drammatico, se non tragico. 



Su questi avvenimenti si è sviluppata tutta una “letteratura di genere” che, nell’ordine, prevede la ricerca del colpevole, la rabbia verso lo stato (e verso Dio), le “prediche” sulle responsabilità dell’uomo e il dito puntato verso la politica e le misure da assumere contro il dissesto idrogeologico del territorio italiano. E’ evidente che sulla materia è già stato detto tutto e che ogni commento rischia di ripetere una litania rassicurante per cui la colpa di quanto accade è sempre di qualcun altro, mentre è altrettanto evidente che cosa occorrerebbe fare per mettere in sicurezza le diverse aree dello Stivale: manutenzione dei corsi d’acqua, cura e tutela delle zone boschive, investimenti in infrastrutture e prevenzione, lotta agli abusi e alle azioni di lobbying che incidono sulle politiche locali condizionando, con le diverse scelte, il bene comune delle singole regioni. 



Se tutto questo è assodato, il vero mistero rimane legato al soggetto cui simili azioni di prevenzione spetterebbero. Il Papa, nel viaggio di ritorno dalla Colombia, dopo aver parlato della testardaggine dell’uomo, che sa quello che deve fare ma non lo fa, ha usato alcune parole importanti sul fatto che un processo — politico o sociale — va avanti solo quando lo prende in mano il popolo. La crisi economica, i flussi migratori e il terrorismo internazionale hanno minato sempre di più, in questi sedici anni che ci separano dall’11 settembre, il senso di popolo e di comunità dell’Occidente. Le politiche legate alla famiglia, al welfare e alla tutela di presunti nuovi diritti non hanno fatto altro che alimentare lo sfilacciamento sociale indotto da fattori esogeni sempre più pervasivi e minacciosi: mai come nel nostro tempo politica interna e politica estera, politica sociale e politica economica, cultura e tecnologia sono state così intrecciate fino a confondersi l’una nell’altra e a trasformare le problematiche del nostro tempo in una matassa in cui appare davvero complesso trovare il bandolo. 



Eppure il bandolo c’è e va ricercato in quella crescente solitudine e sfiducia che segna in modo sempre più indelebile le giovani e le meno giovani generazioni, che spinge nell’angolo della rabbia e della dipendenza adulti e ragazzini, che sfocia in violenza e ferocia atroce ma sempre più consapevole. Non abbiamo più radici, ha sentenziato il Papa ieri, e per questo non abbiamo più certezze, non abbiamo più legami. Don Giussani profeticamente raccontava ai suoi studenti che quando l’uomo recide ogni legame con ciò che viene prima di lui, e che arriva a lui attraverso le mille domande che affollano il cuore, il prezzo da pagare è quello della rottura col passato, dell’incomunicabilità e della solitudine. C’è come una distanza dal cuore, una mancanza di serietà con quello che ci troviamo addosso, che lentamente ci rende estranei a noi stessi e rende il volto dell’altro sempre più sconosciuto. 

Il popolo scompare quando scompare l’Io, quando scompare l’impegno quotidiano della propria libertà verso quel patrimonio di interrogativi e di ferite aperte che costituisce la radice di quello che siamo. Al suo posto rimane soltanto un oceano di paura per cui la corruzione, il cercare rifugio in un bene effimero prodotto dalle proprie strategie, diventa l’unica medicina che sembra realmente efficace. La mancanza di solidarietà autentica, di cura comune della terra, di capacità di sacrificio dell’interesse personale a favore del bene di tutti è così legata ad un doverismo, ad un moralismo che poco c’entra con quel moto dell’anima che comprende che senza il “Noi” nessun “Io” può davvero essere felice.

I disastri di questi giorni sono figli di scelte in cui l’Io è stato ridotto a ciò che può accumulare e assicurarsi, dimenticando che non ci può essere sicurezza per me se non c’è rispetto per te, che non ci può essere identità se non in rapporto con un’alterità. L’autosufficienza è un nemico sempre in agguato ed è per questo che Dio, dovendo pensare a come uscire da questa situazione, ha pensato di valorizzare quei legami che squarciano il nostro narcisismo, l’amore e l’amicizia. Attraverso l’esperienza di un legame, come direbbe san Paolo, l’altro comincia a diventarmi “caro” per cui non posso più pensare di agire e di vivere solo in funzione di me. Nella notte di Betlemme il Cielo non fu squarciato da un miracolo o da un segno di onnipotenza, ma venne illuminato da una scelta precisa di Dio: quella di fare compagnia all’uomo. Perché Egli sapeva che, proprio dentro questa strana compagnia, l’uomo avrebbe avuto la possibilità di essere strappato dal nulla, di sentirsi nuovamente responsabile del proprio fratello, di percepire dentro di sé – nitidamente – il bisogno di un popolo. 

Le scelte consapevoli, che portano ad un approccio molto diverso ai problemi del territorio, alle questioni sollevate dalle alluvioni e dall’incuranza verso la natura, sorgono sempre in contesti dove i legami sociali smettono di essere vincoli giuridici per diventare “valori affettivi”. Un popolo nasce sempre dall’incontro con qualcuno, nasce sempre dove finisce la solitudine. A ben pensare è questa la preghiera più vera per l’Italia e per ciascuno di noi: ch’io possa incontrare chi sa soffrire, chi sa donare fino alla fine, chi è sincero, chi è reale, qualcuno ch’io possa almeno seguire.