Dopo Lee, Colombo. Dopo la polemica sulle statue dei generali sudisti, gli americani sono passati alle vie di fatto: decapitati i monumenti dell’ammiraglio genovese, via i suoi busti dalle piazze, basta col Columbus day. La sua colpa? “È responsabile del genocidio dei nativi”, è a loro che dobbiamo erigere le nuove statue.



A parte i dettagli sul “genocidio dei nativi” (chissà che non ci sia modo di tornarci), nel leggere queste notizie non riesco a non farmi venire in mente una riflessione di Hannah Arendt, citata nel bellissimo L’umanità perduta di Alain Finkielkraut: “Hannah Arendt definisce con il termine risentimento la disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno. Risentimento contro ‘tutto ciò che è dato, anche contro la propria esistenza’; risentimento contro ‘il fatto che egli non è creatore dell’universo, né di sé stesso’. Spinto da questo risentimento fondamentale a ‘non scorgere alcun senso nel mondo quale gli si offre’, l’uomo moderno ‘proclama apertamente che tutto è permesso e crede segretamente che tutto sia possibile’. Nello stesso testo, Hannah Arendt afferma che la gratitudine è la sola alternativa al nichilismo del risentimento, ‘una gratitudine fondamentale per le poche cose elementari che ci sono invariabilmente date, come la vita stessa, l’esistenza dell’uomo e il mondo. Nella sfera della politica, la gratitudine mette l’accento sul fatto che non siamo soli al mondo. Noi possiamo riconciliarci con la varietà del genere umano e con le differenze tra gli uomini soltanto prendendo coscienza, come di una grazia straordinaria, del fatto che sono gli uomini e non l’uomo ad abitare la terra’”.



Meraviglioso. La disposizione d’animo di noi moderni — lo aveva già notato anche Nietzsche — è il risentimento: perché dal Quattro, Cinquecento in avanti ci hanno insegnato, ci siamo convinti che siamo Dio, e non lo siamo. Vorremmo essere onnipotenti, essere noi i signori della vita, del tempo, della storia, e non lo siamo. Vorremmo essere i signori della vita, e ci ingegniamo di fabbricarla in laboratorio. Vorremmo essere i signori della morte, e decidiamo noi a chi distribuirla e quando. Vorremmo essere i signori del tempo, e ci accaniamo contro tutto quel che ci ricorda che, se siamo al mondo, è perché qualcuno ci ha preceduto. E viviamo distruggendo tutto quel che non corrisponde al nostro progetto. Cioè, alla fine, tutto.



L’alternativa — l’unica alternativa, ha ragione la Arendt, non ci sono quarantaquattro posizioni possibili di fronte alla vita, ce ne sono due, o mi alzo al mattino grato perché il mondo c’è o mi alzo incazzato perché non va come voglio io — è la gratitudine. La gratitudine perché se io ci sono, se ho a disposizione tutto quel che ho, lo devo a qualcun altro. Lo dice in maniera strepitosa anche Steve Jobs, nell’intervista che chiude la biografia che gli ha dedicato Isaacson: “Penso che la maggior parte delle persone creative desiderino esprimere la propria gratitudine per aver potuto beneficiare dell’opera di chi ci ha preceduto. Non sono stato io a inventare la lingua o la matematica che uso. Produco poco di quello che mangio, nulla di quello che indosso. Ogni mia realizzazione è debitrice ad altri membri della nostra specie, sulle cui spalle poggiano i nostri piedi”.

Certo, quelli che ci hanno preceduto erano uomini come noi. Hanno sbagliato, come noi. Avevano ideali, immagini della vita che noi oggi abbiamo rifiutato (chissà come rideranno di noi i nostri pronipoti fra cento o cinquecento anni, chissà quali statue dei nostri eroi distruggeranno…). Ma senza di loro noi non ci saremmo. È giusto, giustissimo ragionare, in termini storici, cercando di immergerci in mentalità diverse dalla nostra — en passant, nell’epoca dell’idolatria di ogni diverso, gli unici diversi che non tolleriamo sono i nostri avi… — per comprendere i loro errori, per correggerli, per evitarli, per migliorare. Chi invece fa piazza pulita del passato che lo costituisce è pronto a farsi incantare dal primo pifferaio che passa. Anzi, si è già fatto incantare. Anche su questo, se ci sarà modo, torneremo.